loredanafina

DAL LIBRO: "DICERIA DELL'UNTORE" di Gesualdo Bufalino - Sellerio Ed.- le pagine più interessanti. 8^ PUBBLICAZ.


8^  PUBBLICAZIONEI giorni dopo la morte del frate furono di fuoco. Ed io, sebbene per molti versi ci somigliamo, non riesco ad amare l'estate. E' un tempo di ulcere e sfregi, collerico, tracotante; il tempo che nuoce di più a chi sente avvicinarsi la fine e vorrebbe muoversi nella penombra di decenti omertà, con un ordine nei suoi pensieri, e il sangue in pace, finalmente. Mentre il mio sangue, quell'estate, non c'era briglia che lo tenesse, e me lo sentivo battere nelle vene secondo un tempo scorretto, ora furioso ora languido, allo stesso modo di quando si diventa ragazzi e piace spiarne, con un dito sulla carotide, le misteriose maree. Una nuova pubertà, più difficile della prima, m'aveva dunque sorpreso, o che altro volevano dire quei rintocchi di tamburo da cui si spargeva su ogni mio risveglio un familiare lezzo di finimondo? Scorrevano sul quadrante le ore, grani di lenta insostenibile luce. Inutilmente sperai un inciampo nel cammino delle stelle. Troppo netto si staccava l'azzurro sui doccioni della Rocca, con un solo falchetto lassù, e nessuno scudo di nuvola che stornasse l'avvento del giorno di Dio. Poichè c'è un giorno, uno solo, di luglio, nell'isola, che si snatura dagli altri e non si dimentica più. Gli altri erano soltanto estate, il belvedere color kaki di cui discorrono le cartoline. Ma questo, è l'esempio di una stagione che non esiste.Comincia coi primi chiari dell'alba e si sentono attraverso il sonno i cani lamentarsi negli uliveti. Poi il sole sbocca dai tetti, grondante tuorlo, orrido mestruo del cielo. Il soffio che ne nasce non fa nemmeno sudare, ma stringe dentro un pugno il cuore, scaglia le rondini a rompersi contro la sciara, dovunque fa luminello, e le illude, un inesistente pulpito d'acqua. Ecco l'una, le due. Ora gorgoglia piano e si spegne la coda di vento che s'era levata dal mare, seminando sabbia africana in ogni piega della pelle e del suolo; accanto ai pozzi sono vuoti i secchi dove s'imbuca la vipera, sulle soglie i poveri dormono, e sembrano morti, con una pezza scura posata sopra le palpebre.Alla Rocca non fu diverso, naturalmente. E il sindaco di Caccamo, che da un giornale invocava aiuto per un arrivo di cavallette, fece presto a parerci un faraone atterrito. Ma: "E' Ghibli di Tunisia" minimizzarono le suore, coraggiose nei soggoli di lana, passando fra letto e letto a deporre un fazzoletto bagnato sopra le tempie dei più sofferenti. "Si calmerà, vedrete. Domani staremo meglio". I malati annuivano, che potevano dire. Ma quelli che non avevano febbre scendevano in giardino, senza chiedere permesso a nessuno: stecchiti, a dorso nudo, per una disubbidienza o sgarro a chissà chi, avanzavano ansimando entro la ronzante caligine. Identici, certo, agli altri dell'anno prima e degli anni a venire: la stessa urgenza superflua dei gesti, le meraviglie di uno, stupido o giovane, e quelle bizze di circoscritti assediati in un fortino senza acqua, che si espongono sui merli e strillano, mentre il nemico dietro i palmizi se ne infischia, non spara nemmeno.In quanto a me, che sarebbe servito imitarli? Meglio cercare di obbligarsi a uno stallo dei sentimenti, a una sorta di flemma o miopia, di fronte a tanta inimicizia del tempo, e all'oltranza di quelle morti che la calura disegnava in anticipo, smerigliando le sporgenze delle mandibole come sinopie di teschi. Dunque me ne restai sulla branda, quel giorno e quelli che seguirono, nudo sotto il lenzuolo, e ad occhi chiusi più spesso, ma a volte guardando le foto d'attori incollate alla parete di fronte e almanaccando fatti fra loro, una fandonia da piangere, implausibile come la mia. Poichè certo la mia storia era un'invenzione da c'era una volta, bastava addomentarsi per non crederci più e ristabilire l'equità della vita, al di qual del sipario. Sì, questo era il segreto: scappare dentro il sonno e allogarcisi dentro, farci nido dentro, come chi indossa un vecchio maglione. Fuori ne restassero gli altri, e la loro salute, le loro gengive rosse, i passi chè vanno non si sa dove e vogliono non si sa che. E smettesse una buona volta il cuore di suonare a martello, il metronomo della goccia di torturare nel lavandino la mosca cavallina a zampe in su, precipitata dalla cornice di porcellana. Insomma, che vogliono gli altri; la luce, che vuole? Io ho la mia parete, lì avanti, con una fandonia dipinta. E i miei sogni d'oro zecchino, prima di chiudere gli occhi. E il sonno, infine: sepolcro sprangato, placenta di madre antica, nave solare per andarmene come un re.___________________________________PROSSIMA PUBBLICAZIONE AL PIU' PRESTO.