loredanafina

DAL LIBRO: "DICERIA DELL'UNTORE" di Gesualdo Bufalino - Sellerio Editore - le pagine più interessanti. 9^ PUBBLICAZ.


NONA PUBBLICAZIONENon era vero. O almeno non lo era più. Da quando quella ragazza m'aveva annunziato l'esistere, di occupare un irrisorio incavo d'aria in mezzo a noi, a pochi metri dalle mie braccia. Lei con le fossette del riso, e la tosse, e le valve segrete del sesso sotto la buccia della veste fanciullina. Un'esclusa, un'anima persa: giusto la socia che mi serviva. Una socia, sì. Perchè contro ogni creanza e verità io m'ostinavo a presumere d'avere tacitamente stretto patto con lei, e di possederne caparra nella radiografia trafugata che tenevo sotto il cuscino. Questa, mi bastava accarezzarla con un dito, la sera, e ne ricavavo un raggricciarsi agrodolce dei nervi, quale dà a taluno la setagloria di un parapioggia, se gli sfiora per caso i capelli. Al punto che quell'esile celluloide, contro cui s'era premuto con forza il suo petto, piuttosto che continuare a sembrarmi, come all'inizio, la tela filata da una tarantola scura, s'era venuta mutando, non meno che guato o stivaletto, in una sorta di inaudito feticcio amoroso....Non durò molto così, le mie difese naturali si svegliarono; e al timore dell'irrisione, e ai rovi d'ogni genere che mi ributtavano dalla donna, s'aggiunse e vinse, il timore di come avrebbe fatto presto a spezzarsi un  vincolo che ai due capi tenessero due mani di così monca  e debole presa. Ripensai a un film di tanti anni prima, al sorridevole piagnisteo del suo titolo: Amanti senza domani. Rividi i due su un ponte di transatlantico: William Powell, lui, un losco galente che la sedia elettrica attende alla fine della traversata, e a cui gli sbirri di scorta consentono benevolmente di passeggiare senza manette; Kay Francis, lei, spacciata dai medici, che ogni sera, per scordarsene, indossa una pelliccia più bella. S'incontrano, e ognuno sa della condanna dell'altro, ma finge di non saperlo. E ballano insieme in un grande salone deserto, e si dicono parole sotto la luna.....Facili lacrime mie di ragazzo, altera tenera Key! Chi avrebbe mai pensato che dovesse toccarmia mia volta, all'ombra degli stessi umidi salici, di danzare una stessa tresca d'amore e di morte, su un motivo di fiacca pianola?In un soprassalto di ragione volli strapparmi a quel miele, chiesi di tornarmene a casa per qualche giorno. Non stavo peggio del solito, non tossivo, mi fu concesso.Partii col primo treno del mattino ed ero contento. Avrei rivisto i miei, ritrovato la mia stanza, i miei libri, i viavai con gli amici, da mezzanotte alle due. Basta meno, talora, per togliersi dalla mente una donna.Il mio paese: chi se ne ricordava più, o me n'era rimasto uno schiocco di tende strepitose come vele, e asini in amore, e in una figura di quadriglia una ragazza bruna, con una rosa.Fu invece un luogo senza remissione, a cominciare dal plotone d'alberi rigidi sul viale della stazione, simili a fucilieri in attesa di un passeggero bendato, fino agli ossi di case sullo strapiombo marino, dove batteva la tramontana. "Non dovevo tornarci, ho sbagliato" mi resi conto, non appena dal finestrino ne scorsi fra due traori lo scorporato profilo.Solo mi ritrovai sul marciapiedi, quando fui sceso dal convoglio in sosta, e solo m'incamminai verso casa, sempre più certo a mano a mano che, se anche arrivavo senza preavviso e dal mio espatrio tanto tempo era trascorso, mille nemici vi erano, scaltri, svegli, feroci, che mi aspettavano al varco. Sicuro, mille e mille ricordi mi facevano la posta, in veste di mendicanti o sicari, nè c'era verso di liberarsene. Davanti all'uscio dal noto colore, mentre la mia mano esitava, tenendo a mezz'aria un picchio di ferro imbrunito dal tempo, eccoli, prima l'uno, poi l'altro, poi tutti insieme: strabocchevole ciurma, le cui voci, insultando, supplicando, mi si rincorrevano nelle orecchie, sperando in una risposta che non sapevo trovare. Poi fra me e mio padre tutto quell'alterco da piangere: io che non voglio abbracciarlo, sfiorarlo con le mie labbra nocive: lui che insiste, mentre il mento gli s'infossa e nell'iride balena e si rintana un allarme di preda sorpresa.  Ma chi è ora quest'uomo canuto, nimuto, con una lisa maglietta appiccicata agli uncini delle scapole? Dov'è sepolto, con chi me lo hanno scambiato, il mio fuligginoso ciclope dalle risa di tuono? E' un vecchio che trema, costui, e ripete il mio nome, e mi spinge senza forza verso la mia stanza di studente. "Tutto è come prima" mormora. "Non abbiamo toccato nulla".Certo, certo, tutto era come prima, non avevano toccato nulla: un nido di serpi, un pozzo di raccapriccio. Con ogni serpe al suo posto. C'è il calendario di allora, la chitarra, il letto di ferro. I tre sassi di calcare, scolpiti dall'aria, sulla scrivania che non ha smesso di gemere. In fondo a un cassetto, sempre quello, riempiti sino all'orlo d'un inflessibile inchiostro, senza guardare riconosco al tatto i miei sublimi quaderni di cadetto di Brienne. Quanto a lungo ho creduto in me, e quanto a torto, davanti a questo scrittoio di finta pelle, accanto a questa porta-finestra da cui si vede ancora la stessa piazzetta da niente, un fazzoletto di sole disabitato e fermo. Non c'è più l'alberello di acacia che vi cresceva, ma sempre le contrapposte panchine, lunghe quanto un corpo d'adolescente sdraiato.Qui ogni sera due sorelle gemelle tornavano ridendo a scoprire in uno spacco di corteccia l'occhio di una civetta. Affacciandomi mettevo in rotta senza scampo le loro vesti di mussola rosa. Gli dissi parole d'amore, una volta. Dove sono ora, che turbine se l'è portate via?________________________________________PROSSIMA PUBBLICAZIONE AL PIU' PRESTO.