Riflessioni

Psicologia: Perdonare conviene. Uno studio dimostra che migliora la salute psichica


 Il perdono fa bene. Soprattutto a chi lo concede. Migliora la sua salute psichica e può essere anche una terapia per cacciare via, quando si presentano, molti fantasmi della mente. È provato: perdonare conviene.Barbara Barcaccia, psicologa dell’università dell’Aquila, e Francesco Mancini, neuropsichiatra infantile, già presidente della Società italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva, hanno curato un libro, Teoria e clinica del perdono (pagine 230; euro 24,50) appena uscito per Raffaello Cortina Editore. È il primo libro italiano in cui il perdono è affrontato dal punto di vista della psicologia scientifica. E il risultato non giunge del tutto inatteso. Il perdono fa bene. Più a chi lo porta che a chi lo riceve. Può diventare persino una cura. Anche se non mancano i rischi. Diciamo subito che la psicologia del perdono è scienza recente. Fino agli anni ’90 del secolo scorso l’atto del perdonare era preso in considerazione solo dai filosofi e dai religiosi. Soprattutto, ma non solo, cristiani. «Dio, perdona loro perché non sanno quel che fanno», chiede Gesù dalla croce. Non è forse quella cristiana la religione del perdono, che ha nella confessione il suo principale rituale? È forse in virtù di questo pregiudizio che gli psicologi non se ne sono, di fatto, mai occupati. Fino al 1990 gli articoli scientifici sull’argomento in tutto il mondo non superavano la ventina. Sono stati appena 81 nel quinquennio 1996/2000; sono saliti a quasi 250 nel quinquennio successivo per poi balzare a 445 nel 2006/2010. Un vero boom, favorito dal fatto che nel 1998 la Templeton Foundation ha deciso di finanziare studi sull’argomento e che nel 2003 si è tenuta la prima conferenza internazionale sulla psicologia del perdono. UN LIBRO A QUATTRO MANI Gli studi non sono stati e non sono affatto semplici. Perché, in primo luogo, occorre definire cos’è il perdono. Impresa a tutt’oggi non pienamente riuscita. In primo luogo bisogna distinguere tra il perdono interpersonale, su cui si sofferma il libro di Barcaccia e Mancini; il perdono tra collettività; il perdono a livello giuridico. Il perdono tra singole persone, in prima battuta, può essere definito in negativo. Perdonare non è semplicemente scusare o giustificare o dimenticare un torto subito. Perdonare non è neppure riconciliarsi con la persona che ha offeso. Il perdono è un processo. Che prevede, in uno dei modelli più accettati, quattro fasi. La prima delle quali è riconoscere l’offesa. E riconoscerla per tale, non importa se sia grave o meno. Molte donne, per esempio, hanno difficoltà a riconoscere nella violenza del marito un’offesa. Spesso queste donne scusano, giustificano o preferiscono dimenticare le offese. Ma in mancanza di un esplicito riconoscimento, in primo luogo con se stesse, del torto inaudito subito, non possono perdonare. La seconda fase è decidere di perdonare. Non è un processo istantaneo. Una volta riconosciuta l’offesa, bisogna superare il desiderio di vendetta, la rabbia e anche la giustificazione o la tentazione di dimenticare. Di metterci una pietra sopra. No, che decide di perdonare deve tenere sempre ben presente l’offesa. La sua gravità. Solo così può rendersi disponibile a perdonare e poi impegnarsi a farlo. La terza fase è lavorare per raggiungere il perdono. Sempre tenendo a mente l’offesa, si inizia ad assumere la prospettiva di chi ha offeso. Si cerca di entrare nei suoi panni. Di ripercorre il processo che ha portato a offendere. Si diventa così empatici con l’offensore. Se ne prova sincera ma consapevole compassione. Si accetta la sofferenza. Si comprende che il perdono è un atto unilaterale, che non coinvolge chi ha offeso. Io ti perdono, qualsiasi cosa tu faccia. Anche se non me ne fai richiesta. Anche se non chiedi scusa. La quarta fase è perdonare e approfondire il senso del perdono e le sue conseguenze. In questa quarta fase, dunque, non ci si limita a perdonare chi ha offeso, ma si ridisegna la propria vita. Naturalmente il processo del perdono non si esaurisce in questo schema (in cui neppure tutti gli esperti si riconoscono). Non fosse altro perché ogni percorso che porta al perdono è personale. In questi dieci o quindici anni di studi scientifici si sono raccolti sufficienti dati empirici per poter sostenere che il perdono non è solo un nobile gesto morale che viene compiuto, in genere, più dalle donne che dagli uomini e indipendentemente dal credo religioso. Quella cristiana sarà pure la religione che più di ogni altra si fonda sul perdono, ma i cristiani perdonano, in media, quanto gli ebrei, i musulmani o gli atei. AIUTA I DEPRESSI Quasi tutti coloro che perdonano ne hanno un beneficio: un maggiore benessere, non solo psicologico, ma anche fisico. Già, perché chi è incline al perdono evita di rimuginare in continuazione sull’offesa, di vivere per la vendetta, di schiumare rabbia. Cosicché non solo vive con un animo più leggero, ma ha una pressione arteriosa in media più bassa, un sistema immunitario più robusto, una minore propensione alla stanchezza, allo stress, alla depressione. Perdonare dunque fa bene, a chi perdona. Non necessariamente a chi è perdonato. Che anzi, vede spesso acuirsi il proprio senso di colpa. Tuttavia perdonare non deve significare abbassare la guardia. Se una donna perdona il suo compagno violento e torna a vivere con lui, per esempio, è più esposta al rischio di una recidiva. Quindi le conseguenze del perdono vanno valutate, caso per caso. Il perdono, tuttavia, non ha solo effetti fisiologici. Può essere una terapia per alcune tipologie di disturbi. Viviana Balestrini, per esempio, mostra come il processo del perdono possa essere efficace nella cura della depressione. E lo stesso Francesco Mancini insieme ad Angelo Maria Saliani dimostrano che molti disturbi ossessivo-compulsivi causati da un senso di colpa deontologico e, dunque, strettamente morale, possono essere curati con la terapia del perdono. Anche se in questo caso viene evocato il più difficile dei perdoni. Il perdono di sé.Fonte: l'Unità.it