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Il disegno criminale degli Illuminati (3)

Post n°45 pubblicato il 02 Maggio 2014 da myfriend.mi
 

8 marzo, 25 aprile, 1 maggio: davvero tutte queste celebrazioni fanno parte del passato e sono, ormai, anacronistiche? Non siamo, forse, davanti a dei nuovi nazifascisti? A dei nuovi Lager o Gulag? Davvero questi bastardi vorrebbero farci credere che la soluzione alla crisi sta nello loro riforme?


 

Incendio alla Ali Enterprise di Karachi – Pakistan

L’ 11 settembre 2012 un incendio terrificante ha distrutto la fabbrica tessile «Ali Enterprises» di Karachi, nella regione pakistana del Sindh. La conta dei morti iniziava a poche ore dall’incendio che, nella città di Lahore, aveva distrutto una fabbrica illegale di scarpe, uccidendo almeno 25 persone. Ma è a Karachi che si è consumato il più grave disastro industriale del Pakistan moderno: i dati riportati dai media parlano di 289 morti, tra cui 23 donne. Secondo Zehra Akbar Khan, segretaria della Home Based Women Workers Federation, cui dobbiamo le informazioni che oggi pubblichiamo, i morti sono quasi 250. «Molti mancano ancora all’appello, e sono più di 70 i corpi che saranno riconsegnati alle loro famiglie solo dopo che sarà stato effettuato un test del DNA. La maggior parte dei lavoratori non era registrata regolarmente in fabbrica, e molti erano assunti tramite agenzie esterne, attraverso il sistema dei subappalti. Siamo stati informati che c’erano più di 600 operai nella fabbrica al momento dell’incendio. Pensiamo anche che il numero delle donne sia superiore a quello riportato dai media. Sono soprattutto le donne, infatti, a essere impiegate nel settore tessile, e lo stesso avveniva nella fabbrica dove è scoppiato l’incendio. Al lavoro c’erano anche dei minori. Sono stati recuperati i cadaveri di due bambini, di 15 e 16 anni».

L’incertezza delle stime non lascia dubbi sul fatto che si sia trattato di una strage di operai e operaie, ed è indicativa del fatto che nella fabbrica di Karachi lavoravano uomini, donne e bambini in condizioni informali, senza una lettera o un contratto di assunzione, reclutati prevalentemente attraverso il sistema del caporalato.

Karachi è una delle più grandi città del Pakistan, il cuore commerciale del paese, e secondo la Camera del Commercio e dell’Industria locale conta 10.000 fabbriche e sette aree industriali, cui bisogna aggiungere 50.000 piccole imprese informali costruite nelle zone residenziali. La «Ali Enterprise» ha un fatturato stimato tra i 10 e i 50 milioni di dollari l’anno, a fronte di un salario tra i 50 e i 100 dollari pagato alla fine del mese ai suoi operai, provenienti per la maggior parte dalle aree rurali del Sindh e del Punjab. L’azienda realizza semilavorati e prodotti finiti per il brand «OKAY Jeans», con sede in Germania. È uno degli impianti che compongono l’imponente industria tessile pakistana, da cui nel 2011 ha avuto origine il 7,4% del prodotto interno lordo, nella quale ha trovato impiego il 38% dei lavoratori manifatturieri, e che ha fornito il 55,6% delle merci destinate all’esportazione.

Lo sfruttamento intensivo del lavoro operaio è il motivo politico che a Karachi, come in molte altre fabbriche del mondo, fa considerare la morte degli operai come un rischio che si può correre. Nelle fabbriche pakistane, cinesi, messicane o italiane l’espressione «società del rischio» non ha a che fare con il fatalismo, ma assume un significato costante, letale e globale. Qui il neoliberismo non è un’eccezione del sistema democratico, non ha a che fare con la crisi della rappresentanza, non è una governance distante o incomprensibile. Qui c’è un sistema sociale di sfruttamento con garanzie istituzionali evidenti e identificate.

L’11/9 del movimento operaio pakistano non è un incidente locale o confinabile, né un episodio tragico in un sistema di sviluppo tardivo. Non è nemmeno un incidente sul lavoro in una fabbrica lontana. A Karachi, come a Taranto o a Torino, la morte è trattata come l’inevitabile effetto collaterale del processo di valorizzazione del capitale. L’assenza di controlli e norme di sicurezza perseguita dagli industriali con il beneplacito dei governi non è un’eccezione resa possibile dalla corruzione diffusa, ma la scelta precisa di un sistema di sfruttamento che fa leva sulla creazione di differenziali – nei salari, negli standard di sicurezza, nell’organizzazione politica e sindacale del lavoro – per accrescere il profitto.

Publichiamo di seguito la dichiarazione di Nasir Mansoor, della segreteria della National Trade Union Federation del Pakistan (NTUF) diffuso all’indomani dell’incendio di Karachi.

È stato il giorno più buio e triste della storia del movimento operaio in Pakistan, quello in cui oltre 300 lavoratori sono bruciati vivi nel terribile incendio in una fabbrica tessile di Karachi, l’11 settembre. Non si è trattato del primo incidente di questo tipo, in quella fabbrica come in molte altre. È un fenomeno quasi quotidiano ma che passa sempre sotto silenzio, finché non si trasforma in un crimine atroce illuminato sui media da una luce sinistra. Più di 300 lavoratori hanno perso le loro vite preziose, immolate sull’altare della sfrenata passione capitalistica per il profitto.

La società, in questo modo, è criminalmente brutalizzata, e nessuno ascolta le voci e le invocazioni dei reietti della terra finché un danno incalcolabile e una miseria inimmaginabile non li colpiscono. È quanto accaduto agli operai della «Ali Enterprises», una fabbrica tessile nell’area industriale SITE di Karachi, dove già un paio di incendi erano scoppiati senza che nessuna agenzia governativa intervenisse con azioni severe.

Si è venuti a sapere che la fabbrica era stata impiantata illegalmente, senza essere registrata secondo quanto previsto dal Factories Act. È una fabbrica che produce per l’esportazione. Qui, in Pakistan, la maggioranza delle fabbriche non è registrata sotto il Factories Act, così da evitare regole e regolamenti, e negare ai lavoratori qualsiasi diritto. L’edificio della fabbrica non era stato approvato come avrebbe dovuto, secondo la Karachi Building Authority (KBA). Le misure di sicurezza sono osservate molto raramente, e questa era la situazione anche alla «Ali Enterprises», dove c’era una sola uscita di sicurezza per più di 500 lavoratori, dove tutte le finestre erano chiuse con sbarre di ferro, e dove le porte e le scale erano ingombrate dalle merci finite o semilavorate.

Come fonte di energia era utilizzato un generatore, privo di qualsiasi sicurezza. In generale, questa è la causa principale degli incendi assieme all’esplosione delle caldaie. In questo caso 300 giovani donne e uomini sono stati uccisi in un paio d’ore, e molti corpi sono ancora sepolti tra le macerie. Non c’erano sistemi antincendio, né estintori nella fabbrica. La maggioranza dei lavoratori era assunta tramite agenzie in subappalto, e praticamente nessuno aveva una lettera di assunzione, così che l’identità di molte delle vittime può essere accertata solo attraverso il test del DNA. Nessun lavoratore era registrato presso il Social Security and Employees Old Age Benefit Institute (EOBI) o il Worker Welfare Board/Fund. Ai lavoratori della fabbrica era stato negato il diritto di formare un loro sindacato, e di godere dei loro diritti alla contrattazione collettiva. I lavoratori che sono sopravvissuti all’incidente dicono che la fabbrica era assicurata, ma non gli operai, e accusano il proprietario di aver pianificato egli stesso l’incendio per ottenere il risarcimento dall’assicurazione.

La NTUF è stata la prima a reagire di fronte all’incidente, e ha organizzato una manifestazione a Karachi chiedendo l’arresto del proprietario, l’imputazione dei funzionari responsabili e le dimissioni dei ministri del lavoro, dell’industria, e del Governatore del Sindh a causa della loro grave negligenza. La NTUF ha anche chiesto una compensazione di un milione di Rupie per le famiglie dei lavoratori morti, e di 400.000 Rupie per quelli feriti, oltre che cure mediche gratuite. Ha chiesto, ancora, che si dia avvio a una rigida ispezione, con la collaborazione dei corpi rappresentativi dei lavoratori, che tutte le fabbriche siano registrate sotto il Factories Act, e che siano applicate nel loro spirito le leggi sulla sicurezza, abolendo l’orrendo sistema dei subappalti e garantendo a tutti i lavoratori una lettera di assunzione, la registrazione presso le istituzioni di previdenza sociale e il godimento degli schemi di welfare. La NTUF, infine, ha fatto appello alle organizzazioni internazionali dei lavoratori affinché facciano pressione sui marchi e le etichette internazionali per costringere le industrie locali alla stretta osservanza delle leggi sul lavoro e degli standard di sicurezza previsti dall’Organizzazione mondiale del lavoro e dalle leggi di ciascun paese.

Come informazioni importanti, è necessario aggiungere che si stima che più di 650 operai fossero nella fabbrica al momento dell’incendio; che sembra che la cantina fosse allagata, così che più di 250 persone erano state chiamate a intervenire per risolvere il problema e altrettanti corpi sono ancora intrappolati sotto terra; che più di 100 donne siano morte nell’incendio, e con loro alcuni bambini.

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Commenti al Post:
crssy1
crssy1 il 03/05/14 alle 08:49 via WEB
quando si tiene la gente lontano dai sindacati, ho non da loro la possibilità di creare gruppi sindacalisti e renderli schiavi, così li manipolano come vogliono, una forma di schiavity dei giorni nostri, adesso poi che lavoro ce ne poco chi si rivolge hai sindacalisti io lo fatto ma la conseguenza è stata che al posto mio hanno preso un'altro, lo rifarei quando si nota forme di chivismo così....ho avuto quello che volevo ma ho perso il lavoro ma va bene....anche uno ma deve ribellarsi se no invece di andare avanti si torna indietro....
 
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