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Si puņ fare a meno del debito pubblico ?

Post n°1629 pubblicato il 04 Novembre 2013 da Lucky340
 
Foto di Lucky340

Uno stato dotato di sovranità monetaria in linea di principio ne potrebbe fare a meno. Ma…

 

In condizioni economiche normali, dove cioè non esistono alti e cronici livelli di disoccupazione, il governo stabilisce il livello di spesa pubblica necessario alle attività svolte dallo Stato, e preleva tasse dai suoi cittadini.

 

A livello politico, si definisce l’allocazione della spesa, a quali finalità cioè le risorse pubbliche devono essere destinate. E quali tasse prelevare, in che forma – sui redditi, sui consumi, sul patrimonio – con che livelli di progressività, eccetera.
 
Immaginiamo ora che per effetto, ad esempio, di una crisi finanziaria e bancaria prodotta dall’esplosione di una bolla speculativa, l’economia cada in una situazione di depressione.

 

La domanda scende nettamente al di sotto del livello necessario alla piena occupazione. E anche azzerando i tassi d’interesse praticati dalla banca centrale, e magari fornendo ulteriore liquidità al sistema finanziario con manovre di “quantitative easing”, l’occupazione non recupera livelli appropriati.

 

Questa situazione richiede forti politiche pubbliche di “deficit spending”, cioè di spesa pubblica molto più alta del prelievo fiscale. Ma lo Stato non ha bisogno di indebitarsi per attuarle: fino al momento in cui la domanda non ha recuperato livelli vicini alla piena occupazione, non c’è rischio che l’inflazione vada fuori controllo. Il sostegno alla spesa può quindi essere finanziato emettendo moneta.

 

In altri termini, lo Stato non ha bisogno di emettere debito né in condizioni economiche normali, né in situazioni di domanda depressa.

 

Nel primo caso, il bilancio pubblico può essere mantenuto in pareggio. O per essere più precisi, è appropriato un leggero deficit finanziato comunque da moneta (non da debito) perché in condizioni normali l’economia cresce, ed è quindi corretto che aumenti anche la quantità di moneta in circolazione.

 

Ma pure nel secondo caso, lo Stato non ha bisogno di indebitarsi per attuare le politiche di “deficit spending” massiccio necessarie a risollevare l’economia da una situazione di depressione profonda della domanda: può finanziarle emettendo moneta, senza significativi impatti sull’inflazione.
 
Rimane allora da spiegare perché i debiti pubblici esistono. Una ragione, forse in pratica la più importante, ha a che fare con la formazione del consenso politico.

 

Piaccia o no, la spesa pubblica è anche un meccanismo di acquisizione del consenso. Se un politico acquista consenso aumentando determinate categorie di spesa, e lo perde – invece - aumentando le tasse, ci sarà un incentivo a fare la prima cosa ma non la seconda (o non nella stessa misura).
 
Quindi esiste un incentivo ad aumentare il deficit in situazioni in cui l’economia non è depressa. Le motivazioni della spesa, intendiamoci, possono anche essere pienamente condivisibili. Quello che però tende a non avvenire, è che spesa e imposte crescano nella stessa misura.

 

Oppure: il politico si rende popolare abbassando le tasse. Magari eliminando tasse oggettivamente inique o mal concepite. Ma senza effettuare riduzioni di spesa corrispondenti.

 

In pratica, è un “deficit spending” da marketing politico. Che non è una politica di sostegno della domanda.

 

E il modo migliore per attuarlo (dal punto di vista di chi cerca consenso elettorale) è di finanziare il deficit (eccesso di spesa rispetto alle tasse prelevate) con debito pubblico.

 

Do qualcosa in più a qualcuno, non aumento le tasse a nessuno (o viceversa, abbasso le tasse senza tagliare spese). E copro il deficit chiedendo soldi ai miei cittadini (o anche a investitori esteri) ma a titolo di prestito remunerato: non imponendo nuove imposte o tagli di spesa pubblica.

 

Ovviamente, chi si trova a pagare una tassa in più, oppure a subire gli effetti di una riduzione di spesa pubblica, si sente privato di qualcosa. Chi investe il proprio risparmio in titoli del debito pubblico no: effettua semplicemente un normale investimento finanziario.
 
In tutto ciò esistono due controindicazioni. In questa situazione (al contrario di quanto avverrebbe se l’economia fosse depressa) non ci sono significative risorse disoccupate da rimettere al lavoro. In realtà l’azione avvantaggia certe parti della popolazione (presumibilmente quelle al cui consenso il politico che le effettua è particolarmente interessato) ma non può far crescere il PIL, la produzione, i redditi totali.

 

Si verifica quindi un’azione di spiazzamento (“crowding out”): ad esempio, per effetto dei maggiori tassi d’interesse dovuti alla necessità di emettere debito pubblico, si riduce la spesa più sensibile al costo del denaro (magari, quella immobiliare). L’aumento di una forma di spesa ne riduce un’altra.
 
Inoltre, l’esistenza di un debito pubblico implica che una parte della spesa futura dovrà essere destinata al pagamento di interessi. I deficit pregressi, se finanziati da debito, producono un vincolo alla politica fiscale degli anni successivi.

 

In conclusione, il “deficit spending” massiccio (definito come sopra: spesa pubblica eccedente il prelievo fiscale) è uno strumento indispensabile per rimettere al lavoro risorse inutilizzate, quindi per assicurare la piena occupazione dell’economia.

 
Ma quando l’economia è in condizioni normali – in altri termini, non ci sono livelli anomali di disoccupazione - il “deficit spending” finanziato da debito è invece un meccanismo di riallocazione delle risorse, non di incremento del loro utilizzo. Riallocazione che viene effettuata dando l’impressione (illusoria) di dare qualcosa di più a qualcuno (o a tutti), senza privare nessuno di nulla.

da http://bastaconleurocrisi.blogspot.it/

 
 
 
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Un blog di: Lucky340
Data di creazione: 04/05/2010
 

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