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Nazionalizzazione del debito pubblico e buoni fiscali per rilanciare l'economia senza austerità_Parte 1^

Post n°2002 pubblicato il 24 Maggio 2018 da Lucky340
 
Foto di Lucky340

di Enrico Grazzini

Parte_1^

L'enorme debito dello stato italiano pesa come un macigno sulla ripresa economica ed è il primo fondamentale problema che il nuovo governo nazional-popolare di 5 Stelle-Lega in via di formazione – certamente assai sgradito alla grande finanza e all'Unione Europea – dovrà affrontare. A causa del debito pubblico, e soprattutto della speculazione finanziaria che funziona come benzina sul fuoco, l'Italia resta il paese più vulnerabile dell'eurozona ed è sempre prossima alla crisi. L'Italia rischia di uscire dall'eurozona non tanto per il “sovranismo” del possibile governo giallo-verde e il suo presunto “anti-europeismo”, e neppure perché è troppo spendacciona – infatti lo stato da venti anni spende meno di quanto incassa con le tasse, al netto degli interessi sul debito -, ma semplicemente a causa della speculazione e dello spread. 

Al di là delle valutazioni sui singoli provvedimenti di politica economica – come il reddito di cittadinanza e la flat tax -, la grande finanza e le istituzioni della UE non sopportano il programma anti-austerità e di difesa dell'economia nazionale che il nuovo governo annuncia di volere realizzare (almeno sulla carta). E quindi il nuovo possibile esecutivo è sotto attacco in Europa, mentre in Italia, sul fronte interno, è attaccato frontalmente anche da PD e Forza Italia che quando erano al governo hanno promosso le politiche di austerità. Paradossalmente le forze cosiddette populiste appaiono schierate a favore dell'intervento pubblico simil-Keynesiano e della difesa dell'interesse nazionale – e probabilmente per questo hanno ottenuto milioni di voti -, mentre il PD di centrosinistra con il suo europeismo, appare allineato (insieme a Forza Italia) dalla parte delle liberalizzazioni e dell'austerità imposta dai mercati finanziari, dai grandi investitori internazionali e dalla UE. Comunque non c'è alcun dubbio che la questione del debito pubblico costituisca il maggior punto debole dell'economia italiana e quindi il punto di debolezza di ogni possibile futuro governo italiano. 

I partiti brancolano nel buio di fronte alla inderogabile necessità di ridurre il debito pubblico e di fare ripartire l'economia. Il problema è molto complesso. Questo articolo (che in effetti è una sorta di mini-saggio) si propone di offrire un contributo alla discussione in merito a questo nodo ineludibile. Analizzerò criticamente le principali proposte per diminuire il rapporto debito/PIL e mi focalizzerò in particolare su quelle che mi sembrano le più efficaci per risolvere il problema. Proporrò forme di nazionalizzazione del debito pubblico e iniziative per stimolare la domanda aggregata per espandere l'economia produttiva e il lavoro. 

La premessa è innanzitutto che la soluzione al problema del debito di stato certamente non consiste in nuovi tagli della spesa e dei servizi pubblici, nelle privatizzazioni selvagge, come vorrebbe l'Unione Europea. Proseguire sulla via dell'austerità sarebbe un suicidio. Nessuna delle manovre di austerità indicate nella famosa lettera della BCE al governo italiano dell'agosto 2011 firmata dall'ex governatore Jean Claude Trichet e da Mario Draghi ha avuto successo nel ridurre il debito pubblico[1]. Anzi, il debito è aumentato. Le inflessibili direttive della UE e della BCE sono solo riuscite a subordinare lo stato e l'economia produttiva a favore del grande capitale finanziario. Povertà e divisioni sociali sono aumentate rapidamente e a dismisura. 

Recentemente illustri economisti come Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, Pier Carlo Padoan, Ignazio Visco e Carlo Cottarelli, hanno proposto di tirare ancora di più la cinghia per raggiungere un avanzo primario (entrate dello stato meno uscite, prima degli interessi sul debito) del 4% sul PIL: ma questo progetto è non solo ingiusto ma anche controproducente e irrealizzabile. Neppure in Grecia la Troika (UE, FMI, BCE) è riuscita a imporre un salasso di queste dimensioni. 

Le possibili soluzioni consistono invece nella almeno parziale nazionalizzazione del debito pubblico, come propongono in forme diverse sia Richard Werner che Michele Fratianni e Paolo Savona. È chiaro infatti che gli investitori nazionali non hanno interesse a speculare al ribasso sui titoli di stato che detengono, si farebbero male da soli; mentre gli operatori internazionali si precipitano a fuggire ai primi sentori di crisi, e così facendo rischiano di affossare il nostro paese. 

Per non essere strangolato dalla speculazione, lo stato italiano non dovrebbe più subordinarsi interamente alle oscillazioni del mercato finanziario, che è speculativo per sua natura. Dovrebbe invece “nazionalizzare” almeno parte del debito accendendo prestiti presso una o più banche nazionali, private o pubbliche. Se in particolare lo stato si indebitasse con una banca pubblica sarebbe ad un tempo venditore e compratore dei suoi titoli di debito e quindi il deficit pubblico diventerebbe solo una partita di giro. 

Inoltre per rilanciare l'economia, lo stato dovrebbe distribuire dei buoni fiscali a maturità differita che però funzionino da subito come moneta-euro da spendere a favore delle famiglie e degli investimenti pubblici. I bonus fiscali convertibili in euro incrementerebbero immediatamente la domanda aggregata e consentirebbero di realizzare gli investimenti pubblici necessari per un New Deal di piena occupazione. Il PIL crescerebbe e quindi il rapporto debito/PIL diventerebbe meno pesante. Ricordiamoci che lo sviluppo dell'economia reale è l'unica vera garanzia di potere onorare il debito pubblico. 

Nazionalizzare il debito e dare una svolta all'economia produttiva grazie all'emissione di buoni fiscali da spendere nell'economia reale. Questa sembra essere la sola ricetta praticabile per tornare a crescere e per ridurre un debito che altrimenti diventerà insostenibile. Mentre altre ricette “riformiste” che in questo scritto mi propongo di esaminare criticamente, suggerite tra gli altri da Marcello Minenna, e poi da Carlo Bastasin, Marcello Messori e Gianni Toniolo, pure se tecnicamente ben disegnate, appaiono nei fatti impraticabili. Infatti esse sono basate su una improbabile cooperazione da parte dell'Unione Europea e dei paesi dell'eurozona: ma i paesi dell'euro e la UE non ci faranno certamente sconti e difficilmente collaboreranno per tirarci fuori dai guai. Possiamo ritornare a crescere solo se i nuovi governi prenderanno delle decisioni autonome, coraggiose e innovative. 

Il debito pubblico continua a crescere in una spirale perversa 

Il debito di stato aumenta costantemente da diversi decenni: il problema è che lo stato italiano fa nuovi debiti per pagare gli interessi sul debito. È un circolo vizioso. Infatti il debito continua costantemente a crescere. Alla fine del 2017 l’Italia aveva un debito pubblico di 2.256 miliardi di euro, di cui circa l’84% (1.911 miliardi) rappresentato da Titoli di Stato negoziabili sul mercato finanziario. In valore assoluto il nostro debito segue solo quello degli USA, pari a 20mila miliardi di dollari, Giappone, 11,5 mila miliardi e Cina, 5000 miliardi circa. 

Il nostro debito è elevato non tanto per il suo valore assoluto ma soprattutto perché rappresenta il 132% del Prodotto Interno Lordo: così gli investitori temono che difficilmente possiamo ripagarlo con le nostre attività produttive. Nel mondo siamo dietro solo a Giappone, che ha un rapporto debito/PIL pari al 240%, e alla Grecia, 180%. Siamo terzi nella classifica mondiale. Un primato italiano assai poco invidiabile. 

La realtà è che l'Italia produce ogni anno più debito che reddito. Infatti la crescita reale del PIL italiano è attualmente dell'1,5%, l'aumento dell'inflazione è pari a circa 0,8%, quindi noi cresciamo nominalmente del 2,3%, mentre il servizio del debito che paghiamo ai mercati finanziari è pari a circa il 4% del PIL (60-70 miliardi all'anno). La spirale del debito pubblico affonda la nostra economia. E può affondare anche la democrazia. Il confronto tra i partiti rischia di diventare puro ornamento decorativo se l'economia non cresce e se restiamo schiavi del debito, cioè della grande finanza. Occorre una svolta decisa 

Dal 1980 ad oggi lo stato italiano con le tasse dei cittadini ha pagato oltre 3400 miliardi di euro per interessi sul debito, senza peraltro riuscire ad abbassarlo[2]. Una cifra enorme. A chi dobbiamo restituire il debito attualmente? Alla grande finanza: gli operatori stranieri contano per circa il 35,5%, le banche nazionali e i fondi monetari per il 18,4%, le assicurazioni e i fondi di investimento per il 23%, e la Banca d’Italia per circa il 18%. Le famiglie italiane, i piccoli risparmiatori, detengono ormai soltanto il 5% circa del debito pubblico. Non investono più nei titoli pubblici del loro Paese[3]

La verità è che il pericolo di fallimento dello stato italiano è sempre presente. Non a caso fondi giganteschi, che gestiscono in maniera speculativa centinaia di miliardi di dollari, come Bridgewater, il più grande fondo d’investimento al mondo, scommettono al ribasso contro Piazza Affari, contro le banche italiane e i titoli di stato. 

I rischi davanti a noi sono molteplici: a) la fine del Quantitative Easing da parte della Banca Centrale Europea. Con la fine del QE, che prevede l'acquisto di titoli pubblici da parte della BCE, è certo che i tassi di interesse aumenteranno e che quindi l'Italia dovrà pagare di più per servire il debito di stato; b) l'incertezza politica: ovvero non si sa come sarà effettivamente governata l'Italia; c) la necessità per il prossimo governo di sterilizzare circa 30 miliardi di aumento dell'IVA; d) l'introduzione del Fiscal Compact, cioè l'inasprimento previsto delle politiche europee di austerità e di rientro accelerato dal debito. 

La proposta più pericolosa per l'Italia, proveniente dagli economisti e dai politici europei cosiddetti “falchi”, come l'ex ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble, è però quella che alle banche nazionali sia imposto un tetto limitato per il possesso dei titoli pubblici del loro paese, e/o che questi non siano più considerati privi di rischio, e che quindi richiedano una copertura di capitale. In tal caso le banche nazionali sarebbero costrette a vendere-svendere molte decine di miliardi di debito pubblico italiano. 

Se passasse questa proposta – con il falso pretesto di disaccoppiare la possibile crisi degli stati da quella delle banche e viceversa – le banche dovrebbero affrontare grandi difficoltà di bilancio, ma soprattutto il debito pubblico sarebbe in gran parte denazionalizzato e lo stato italiano sarebbe completamente dipendente dagli umori e dai capricci dei mercati finanziari. L'Italia cadrebbe in completa balia della speculazione internazionale. Occorre invece nazionalizzare il debito e cercare di dipendere meno possibile dal capitale estero. 

Il debito in moneta straniera porta facilmente al fallimento 

Chiariamo un concetto di base, che però la maggioranza degli economisti ignora o nasconde: un elevato debito pubblico di per sé non è un problema gravissimo se lo stato ha sovranità monetaria, cioè se lo stato può ripagare il debito emettendo moneta propria. E' invece un problema quasi insormontabile se lo stato non ha sovranità monetaria e se è indebitato in una moneta estera, ovvero in una moneta emessa e controllata da altri governi e istituzioni, come è l'euro per l'Italia – e come è per esempio il dollaro per i Paesi del sud America -. 

Per esempio: nel 2017 il Giappone ha registrato un debito pubblico mostruoso pari a circa 11,5 mila miliardi di dollari, circa il 240% rispetto al PIL. Ma il Giappone è indebitato in yen, cioè con una moneta che può stampare a volontà. Non potrà mai fare bancarotta sulla sua moneta. Inoltre il Giappone è indebitato per il 90% circa con sé stesso, con le sue banche e i suoi abitanti, e non con gli operatori esteri, che sono anche gli operatori più propensi alla speculazione del “mordi e fuggi”. E ha una posizione finanziaria netta positiva, cioè ha più crediti verso l'estero che debiti. Nessuno allora pensa che il Giappone possa fallire, nonostante il debito pubblico stratosferico. 

Il maggiore debito pubblico a livello mondiale è detenuto in assoluto dagli Stati Uniti d'America: lo stato federale ha un debito enorme, pari a 20 mila miliardi di dollari. Ma gli USA non hanno problemi: nonostante il loro enorme debito e la bilancia commerciale in deficit, non falliranno mai, perché sono indebitati nella loro moneta sovrana, il dollaro, che la FED, la banca centrale americana, può stampare a piacere. Inoltre il biglietto verde è la valuta internazionale che tutti usano per regolare le transazioni tra Paesi (questo tra l'altro garantisce alla moneta nord-americana il cosiddetto “privilegio esorbitante”, cioè di pagare i debiti esteri in una moneta di sua proprietà). 

Chi ha sovranità monetaria può sempre ripagare il debito emesso nella sua moneta: basta che la Banca Centrale crei nuova moneta e copra il debito! Tuttavia è chiaro che il debito pubblico può diventare un problema irresolubile anche per gli stati che hanno sovranità monetaria: uno stato può infatti fare bancarotta perché stampa troppa moneta e causa inflazione all'interno e svalutazione all'esterno. Si produce allora caos monetario e ipersvalutazione (come nel caso dello Zimbabwe, ma anche dell'Argentina per esempio). 

Tuttavia, uno stato sovrano che conduce una politica economica e monetaria sufficientemente accorta difficilmente va in fallimento; mentre uno stato che non controlla la moneta può molto facilmente andare a rotoli. Non a caso stati anche relativamente “piccoli”, come Israele, Islanda, Sud Corea, Svizzera, Svezia, Norvegia, si guardano bene dal cedere la loro sovranità monetaria. L'Italia invece l'ha ceduta entrando nell'euro. 

La situazione italiana è tanto più grave dal momento che non solo non abbiamo sovranità monetaria ma che, come noto, a causa del trattato di Maastricht, alla BCE è fatto obbligo di non sottoscrivere i debiti di stato. Caso unico al mondo, i paesi dell'eurozona anche di fronte a improvvise crisi finanziarie, sono quindi lasciati senza protezione in balia dei mercati finanziari. Inoltre ormai tutte le nostre banche più importanti, come Unicredit e UBI Banca, sono in prevalenza – a parte l'importante eccezione di Intesa Sanpaolo – in mano a investitori e azionisti esteri. 

A differenza che in Francia e in Germania, dove sono numerosi e importanti gli enti di credito pubblici, l'Italia non ha mantenuto istituti creditizi pubblici che possano contribuire alla politica economica nazionale. Lo stato italiano è azionista di maggioranza di MPS solo perché è intervenuto (di malavoglia) per salvarla dal fallimento in vista della sua privatizzazione. Dovrebbe invece fare leva su MPS e su altre istituzioni pubbliche e parapubbliche – come Cassa Depositi e Prestiti e Poste Italiane- per una politica di sviluppo e di riassorbimento del debito. E dovrebbe incentivare anche fiscalmente gli enti e le società nazionali – come le assicurazioni - ad acquistare il debito pubblico. 

È irrazionale e poco efficiente indebitarsi sui mercati finanziari 

Come si indebita lo stato? Lo stato vende l'85% del suo debito con il meccanismo delle aste. Le maggiori banche d'affari nazionali e internazionali svolgono il ruolo di Primary Dealers, ovvero sono i primi sottoscrittori nelle aste[4]. Queste banche sono abilitate dal Tesoro a svolgere la funzione di market maker per la quale sono previsti obblighi di sottoscrizione (almeno il 3% dell'importo) e di negoziazione di volumi sul mercato “secondario” (vendita al dettaglio). 

I titoli collocati sul mercato secondario sono negoziati e scambiati ai prezzi fissati dalla domanda e dall'offerta. Se la sfiducia nei confronti del Paese che ha emesso i titoli sale, il prezzo dei titoli diminuisce – e, a parità di tasso di interesse del titolo, sale il rendimento -. Il contrario accade – e quindi sale il prezzo e si abbassa il rendimento - se c'è fiducia che lo stato debitore ripaghi i suoi debiti a scadenza. 

Il prezzo del mercato secondario costituisce l’indicatore principale della percezione del rischio diffuso tra gli operatori: quindi condiziona direttamente le caratteristiche della domanda al momento delle aste. I Primary Dealers fanno insomma offerte sui titoli di stato in base ai rendimenti dei titoli sui mercati secondari. Così vince la speculazione, che, nel caso degli stati indebitati, opera prevalentemente al ribasso. Quello della Bce con il Quantitative Easing è invece un ruolo rialzista perché le sue operazioni di acquisto sul mercato secondario vengono realizzate con l’obiettivo di sostenere il valore delle obbligazioni di stato contribuendo così alla riduzione dei rendimenti. 

Il valore dei titoli oscilla molto sul mercato, e il rischio associato allo stato italiano è certificato dalle discusse agenzie americane di rating. Lo spread misura il differenziale tra il rendimento dei titoli tedeschi a dieci anni e quelli italiani; è assai variabile: era per esempio di 0,26% nel 2006 durante il governo Prodi e 5,74% durante il governo Berlusconi nel 2011 (che poi infatti cadde in seguito alla speculazione internazionale e alla pressione dei governi di Berlino e Parigi e della UE). 

Nel novembre 2011, all'apice della crisi dell'euro, la Grecia vendeva i suoi titoli a 10 anni a un tasso del 32,81% (con uno spread di 31%), il Portogallo viaggiava all’11,83%, l’Irlanda all’8,33%, l'Italia al 7% e oltre, e la Spagna al 5,70%. Il problema è che più aumenta il rischio legato allo stato emittente dei titoli, più il mercato finanziario specula al ribasso, provocando quindi una profezia che si auto-avvera. Nel mercato finanziario se si diffonde la convinzione (magari sbagliata) della crisi di uno stato o di una azienda, gli investitori perdono fiducia e mettono in atto una serie di reazioni che ne causano effettivamente il crollo. Così funziona il mercato, irrazionale e speculativo. 

I derivati: la mina vagante del debito pubblico italiano 

La vicenda gravissima dei derivati, per la quale la procura della Corte dei Conti ha citato in giudizio la banca d'affari Morgan Stanley e alcuni ex ed attuali dirigenti del Tesoro per danni alle finanze pubbliche che assommano a circa 4 miliardi, dimostra in maniera lampante come la speculazione possa danneggiare l'economia italiana. I contratti derivati sottoscritti dallo stato italiano per proteggersi dalle oscillazioni dei tassi di interesse valgono per circa 126 miliardi e però ai valori attuali di mercato comportano, secondo i dati forniti dal Tesoro, una perdita di 31 miliardi. Una cifra enorme, pari a quella di una manovra finanziaria, che rischia però di ampliarsi ancora. 

Secondo la procura della Corte dei Conti lo stato avrebbe irresponsabilmente firmato con Morgan Stanley un contratto derivato sull'oscillazione dei tassi di interesse sottoscrivendo clausole vessatorie e completamente squilibrate, ovvero a favore solo della banca d'affari; e poi, nel mezzo della crisi finanziaria del 2011-2, il Tesoro, su richiesta della banca americana, avrebbe pagato immediatamente e senza opporre alcuna resistenza giuridica (come invece avrebbe dovuto) circa 3 miliardi, agendo sotto una sorta di implicito ricatto: quello che la banca americana, nel bel mezzo della crisi italiana, non avrebbe più sottoscritto quote importanti di debito pubblico, innescando la probabile precipitazione della crisi stessa. 

Il giudizio di merito spetta alla magistratura: tuttavia la vicenda dimostra che lo stato è la parte di gran lunga più debole nelle transazioni finanziarie con i grandi investitori internazionali. Giustamente CGIL e Federconsumatori si sono costituiti parte civile nel processo in corso. 

SEGUE

da Micromega

 
 
 
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