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Non intendo sollecitare investimenti.
Chiunque utilizzi spunti derivanti dalla mia analisi agisce a proprio rischio e pericolo.
Messaggi di Settembre 2014
Venerdì, 19 Settembre 2014 Il Conference Board Leading Economic Index (LEI) per gli Stati Uniti è aumentato dello 0,2 per cento in agosto a 103,8 (2004 = 100), a seguito di un aumento del 1,1 per cento nel mese di luglio, e un aumento del 0,7 per cento nel mese di giugno. "Gli indicatori anticipatori segnalano una economia che sta continuando a guadagnare trazione, ma molto probabilmente non si ripeterà la sua stellare performance del secondo trimestre nel secondo semestre", ha detto Ken Goldstein, economista del Conference Board. L'uscita dei prossimi dati è prevista per giovedi 23 ottobre 2014. ^^^^^^^ il LEI è uno dei nostri leading indicator preferiti poichè: a) La correlazione tra LEI e PIL è molto elevata come ci dimostra Northern Trust nel grafico, in cui il LEI – anticipato di un trimestre – viene messo a confronto con l’andamento del PIL americano dal 1960 a oggi. b) la relazione tra Leading Indicator e mercato azionario è molto stretta , risulta evidente la quasi perfetta correlazione tra le due serie di dati: i punti di massimo e di minimo vengono quasi sempre raggiunti nello stesso periodo.I dati del Leading Indicator anticipano di circa sei mesi i movimenti dell’economia e che la stessa cosa succede con i mercati azionari, Il Conference Board (CB), l’istituto privato che elabora l’indice, considera che un calo del 2% in sei mesi, con la contemporanea flessione della maggior parte dei componenti, possa segnalare l’arrivo di una fase di recessione tra i tre e i nove mesi dopo l’ultima lettura; e viceversa, un rialzo del 2% in sei mesi possa segnare l'arrivo di una espansione tra i tre e i nove mesi dopo l’ultima lettura . pertanto noi continuiamo ad usare le indicazioni fornite dai Leading Indicator per riuscire ad ottenere buoni risultati dall’investimento! i dieci componenti del The Conference Board Leading Economic Index® sono ora : Average weekly hours, manufacturing Average weekly initial claims for unemployment insurance Manufacturers’ new orders, consumer goods and materials ISM Index of New Orders Manufacturers' new orders, nondefense capital goods excluding aircraft orders Building permits, new private housing units Stock prices, 500 common stocks Leading Credit Index™ Interest rate spread, 10-year Treasury bonds less federal funds Average consumer expectations for business and economic conditions
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Flessibilità fiscale per l’Italia ?
Con una politica economica fortemente ingessata e uno spazio fiscale residuo pressoché inesistente, il Presidente del Consiglio Matteo Renzi cerca di ottenere dalla UE margini di flessibilità per un’implementazione più attenuata del fiscal compact.
Riteniamo che, semmai tale flessibilità venisse concessa, essa sarebbe largamente insufficiente rispetto all’esigenza di rilancio della domanda interna del Paese. Oltretutto, maggiore flessibilità significherebbe nuovo debito.
Lo scorso anno, il deficit di bilancio dell’Italia è rimasto attestato al 3% del PIL e il surplus primario del 2,2%, il più ampio in Europa, ha eguagliato quello della Germania. Sei anni di tasse in aumento, tuttavia, hanno interrotto la crescita e non hanno impedito il continuo aumento del debito, mentre la produzione industriale si è contratta del 25%, l’occupazione è scesa di oltre un milione di unità e la disoccupazione è più che raddoppiata.
Non è immaginabile che stimoli adeguati promanino dalla politica monetaria, né che le misure della BCE da sole bastino a riattivare il credito. Né la disoccupazione potrà essere riassorbita da una modesta ripresa delle esportazioni. Non c’è nemmeno ragione per credere che riforme nel campo della giustizia, dell’istruzione, della governabilità e della competitività, per quanto necessarie a modernizzare il Paese, consentano di avviare la ripresa. Un nuovo strumento per crescere
In tali condizioni, proponiamo che lo stato italiano emetta dei Certificati di Credito Fiscale (CCF) per assegnarli senza contropartita a imprese e lavoratori in funzione del costo del lavoro sostenuto dalle prime, e della retribuzione netta dei secondi. I CCF non prevederebbero alcun obbligo di rimborso da parte dello stato. A due anni dall’emissione, tuttavia, lo stato s’impegnerebbe ad accettarli per il pagamento di tasse e di qualsiasi altra obbligazione finanziaria ad esso dovuta (contributi pensionistici, previdenziali e sanitari, multe ecc.).
I percettori di CCF potrebbero immediatamente convertirli in euro, vendendoli sul mercato finanziario con uno sconto analogo a quello applicabile a un titolo di stato zero coupon a due anni, e spenderli per l’acquisto di beni e servizi. I CCF sarebbero una quasi-moneta. I due anni di differimento servirebbero a dare all’economia il tempo di aumentare la produzione di beni e servizi in funzione dell’accresciuta domanda, generando incassi erariali che compenserebbero la diminuzione degli introiti in euro conseguente ai versamenti effettuati in CCF.
Le assegnazioni di CCF rappresentano una notevole riduzione del cuneo fiscale: accrescono il reddito disponibile dei lavoratori e riducono il costo del lavoro per le imprese. Le allocazioni dirette supererebbero l’inefficacia dei meccanismi creditizi tradizionali, generando capacità di spesa senza creare indebitamento. I maggiori redditi disponibili sosterrebbero i consumi mentre la riduzione del costo del lavoro incoraggerebbe occupazione e competitività. La bilancia commerciale resterebbe in equilibrio, in quanto le maggiori esportazioni nette consentite dal recupero di competitività compenserebbero la crescita di import conseguente alla ripresa. Il flusso di allocazioni di CCF e la non esigenza di copertura delle stesse attraverso futura tassazione darebbero luogo a consistenti effetti moltiplicativi della spesa sul PIL.
Impatto dei CCF
Con un output gap pari a 300 miliardi di euro rispetto al trend pre-crisi, e ipotizzando stime conservative del moltiplicatore fiscale, l’Italia potrebbe chiudere il gap in 3 o 4 anni, emettendo CCF per 200 miliardi all’anno (con un flusso peraltro modulabile in relazione alla risposta del PIL), senza mai eccedere il limite di Maastricht del 3% e avviando a riduzione il rapporto debito pubblico / PIL. Il taglio al cuneo fiscale diventerebbe permanente, la ripresa della domanda giustificherebbe nuovi investimenti e le migliorate prospettive economiche riattiverebbero il circuito del credito.
Peraltro, dato l’alto volume di risorse attualmente non occupate, la nuova spesa indotta dai CCF non alimenterebbe l’inflazione, tenuto conto anche dell’impatto deflattivo dei CCF sul costo del lavoro sostenuto dalle imprese. E comunque, se l’inflazione dovesse moderatamente ravvivarsi, ciò sarebbe coerente con gli obiettivi che la BCE si sta, oggi, sforzando di conseguire. Che ne penserebbero i paesi partner ? Nelle attuale condizioni di politica economica, nulla può controbilanciare le pressioni deflazionistiche che affliggono le economie periferiche dell’Eurozona, dove la sfida è quella di trovare il modo di sostenere la domanda. I CCF sono la risposta a questa sfida: rilanciano la domanda senza creare debito, poiché i governi che li emettono s’impegnano ad accettarli per il pagamento delle tasse, non a rimborsarne il valore a una qualche data futura.
I paesi creditori, comprensibilmente, chiedono il rispetto di vincoli rigidi all’emissione di nuovo debito da parte dei paesi già esposti, ma non hanno ragioni valide per limitare strumenti non di debito, i CCF, che mirano a combattere la depressione. E poiché i CCF non danno luogo a future obbligazioni di debito per gli stati emittenti, la loro allocazione non ricadrebbe tra le regole del fiscal compact e non rientrerebbe nel calcolo del deficit.
Rimane, certo, la posizione della Germania, che si oppone a misure utili a sostenere la crescita temendo che il loro successo eliminerebbe lo stimolo all’attuazione delle riforme strutturali che – a suo avviso – sono garanzia del ritorno a una crescita sana.
Ma insistere sull’attuazione di riforme strutturali in un contesto di domanda depressa è proprio il modo migliore per impedirne l’attuazione. Le riforme hanno costi di breve-medio termine ed impatti negativi sulla domanda. La stessa Germania, del resto, sforò il limite del 3% nel rapporto deficit pubblico / PIL per riuscire ad avviare le riforme Hartz, nonostante un contesto economico mondiale e, soprattutto, europeo nettamente più favorevole di quello odierno.
http://bastaconleurocrisi.blogspot.it/
nota dell'autore : il testo riprodotto è una versione – non una traduzione letterale – dell’articolo uscito su Economonitor. Sarà pubblicato su uno o più siti / organi di stampa (non vi dico quali solo perché più di uno lo sta esaminando, in versioni tra di loro un filo differenti – non nella sostanza, ovviamente !). A firma congiunta Biagio Bossone – Marco Cattaneo – Warren Mosler – Giovanni Zibordi. |
John Pierpont Morgan era un uomo autorevole e coraggioso. L’imponenza dell’aspetto – in una con il ragguardevolissimo patrimonio accumulato in decenni di attività bancaria – ne facevano, indiscutibilmente, l’uomo più rispettato di Wall Street. E fu dunque a lui che si rivolse il Governo americano quando il Knickerbocker Trust (altra pietra d’angolo della finanza newyorkese) divenne insolvente, avviando la prima crisi sistemica della storia finanziaria contemporanea: il Panico del 1907. Anche quella crisi era cominciata per i soliti motivi: speculazione alimentata dal credito facile, scommesse sempre più azzardate, mercati in crescita per molto, troppo, tempo e assenza di regolamentazione. Ma se questa era la superficie altamente infiammabile ideale per propalare un incendio, su di essa doveva ancora – come da manuale dello shock finanziario – cadere un qualche cerino ben acceso: alla bisogna sovvenne presto il crollo del prezzo del rame. Nelle settimane precedenti, il magnate del rame, Otto Heinze si era messo in testa di fare un salto di qualità e controllare completamente il mercato del metallo scalando una delle principali società minerarie: per riuscire nell’impresa doveva indebitarsi a man bassa e pertanto decise di rivolgersi al Knickerbocker Trust, che lo finanziò con generosità. Quando sembrava che tutto potesse andare per il meglio, giunse a guastare la festa una terribile notizia: i Guggenheim avevano scoperto degli immensi giacimenti di rame in Alaska. Naturalmente il prevedibile arrivo di quantità ingenti di metallo sul mercato avviò l’istantanea rovina di Heinze e compari, nonché del venerabile Knickerbocker e delle numerose istituzioni con cui esso aveva relazioni finanziarie. Ne seguì il crollo generalizzato del mercato e una frenetica corsa agli sportelli. L’enorme naso di J.P. Morgan sentì immediatamente puzza di disastro: messa insieme in un ora la rilevantissima somma di 24 milioni di dollari, egli riuscì a ottenere un ulteriore prestito di 25 milioni dal Governo (la Federal Reserve non esisteva, sarebbe nata solo in seguito a questi fatti) con i quali cominciò a comprare carrettate di titoli e a prestare soldi a istituzioni semi-decotte. L’intervento tempestivo e coraggioso del vecchio Morgan – soprannominato significativamente “Giove” – consentì il superamento della crisi e la ripresa dei corsi in tempi piuttosto rapidi, evitando quella che poteva essere una “grande depressione” ante litteram. Ecco: questo è esattamente ciò che gli Americani chiamano Quantitative Easing: l’autorità monetaria – Banca Centrale o Governo – stampa danaro e compra asset i cui valori sono depressi (i famosi “titoli tossici”) per riportare fiducia nei mercati, impedire la stretta creditizia e scongiurare la altrimenti inevitabile recessione. In questa breve digressione ai primi del novecento trovate anche le motivazioni dell’evidente fallimento dell’operazione di Tltro lanciata da Mario Draghi la scorsa settimana: come forse avrete saputo, infatti, un’asta che doveva collocare presso le banche europee circa 150 miliardi di euro di liquidità aggiuntiva, ha raggiunto “appena” gli 87,5 miliardi. In altre parole le banche europee, innanzi alla generosa offerta di danaro “quasi gratis” hanno cortesemente declinato, lasciando intendere di non avere bisogno di ricorrere ai rubinetti di Francoforte per operare. Perché? Cosa può indurre una banca a rifiutare danaro facile? E’ presto detto: le regole di valutazione del merito del credito previste nel contesto della vigilanza bancaria europea sono rigorosissime e, di fatto, impediscono alle banche di iscrivere sui propri bilanci attività di qualità men che eccelsa. A ciò si aggiunga che è attualmente in corso la ben nota “Asset Quality Review”, un test altrettanto attento su ciò che i bilanci delle principali banche già contengono. E’ un bene dite? Beh, non sarò io ad affermare che le banche debbano prestare soldi a chi non li restituisce o acquistare titoli spazzatura… tuttavia è un fatto che queste regole masochisticamente pro-cicliche impediscono che proprio i settori più deboli dell’economia abbiano ossigeno: il prestatore di ultima istanza (la Bce), come noto, è obbligato a operare solo attraverso le banche; alle banche, d’altro canto, è vietato prestare danaro a chi ne ha davvero bisogno. Il risultato finale è che le stesse banche finiscono per non richiedere nuova liquidità provando, ancora una volta, la natura meramente pubblicitaria delle manovre del mago Mario. Seguendo le quali, John Pierpont Morgan nel 1907 non avrebbe cavato un ragno dal buco: ci potete scommettere. |
Inviato da: cassetta2
il 19/04/2023 alle 17:44
Inviato da: cassetta2
il 29/03/2020 alle 14:46
Inviato da: cassetta2
il 22/10/2019 alle 10:50
Inviato da: Lucky340
il 11/10/2019 alle 21:32
Inviato da: Lucky340
il 01/06/2018 alle 10:05