MAIDEN

I trentenni di oggi. Generazione smarrita o ingannata?


Il giornalista Pierluigi Battista alcuni giorni fa, in un’intervista su Sette, ha dichiarato apertamente che i giovani di oggi dovrebbero fare una rivoluzione contro la sua generazione, quella dei cinquanta-sessantenni. L’affermazione, epurata da ogni connotazione sarcastica, ha ben ragion d’essere. Negli anni ’60 o ’70 i giovani – che coincidono con gli odierni ‘pensionandi’ – erano, a seconda dei casi, “figli dei fiori”, “rivoluzionari” o “sessantottini”; poi, negli anni ottanta, sono diventati la classe adulta “boomista”, beneficiaria del boom economico; oggi, infine, sono assurti al ruolo di ‘savi’, che, dagli scranni del parlamento, dei consigli regionali, dei comuni, delle università, delle scuole, e per finire, dal piedistallo della potestà genitoriale, esortano i nuovi giovani - i trentenni di oggi - a fare meglio o di più, a scaltrirsi, ad imparare l’arte di zigzagare tra le buche della precarietà, a considerare la possibilità di una pensione integrativa, ad affrontare la sfida dell’indipendenza dalla famiglia d’origine senza alcuna certezza futura.Quasi ogni lunedì, sul del Corriere della Sera, il filosofo Francesco Alberoni parla ai giovani: riflette sulla necessità di reinventarsi, di farsi acuti camaleonti mutando le proprie caratteristiche a seconda dell’ambiente in cui ci si trova, di soffermarsi ad osservare il mondo per capire di cosa ha bisogno e arrivare ad ideare, così, nuovi redditizi mestieri. Tutti saggi consigli, che sono tuttavia pronunciati da un pulpito ubicato in posizione superprotetta, come un ponte sul mare in tempesta della precarietà. La verità è che la generazione passata ignora la condizione di incertezza profonda in cui è costretto a vivere chi, anche dopo tanti anni di esperienza, non ha accesso ad un posto di lavoro sicuro. I pochi giovani che vi approdano vivono poi nel terrore della crisi economica e nella preoccupazione di una vecchiaia incerta, poiché già sanno che i contributi che versano oggi non basteranno a sostenerli quando andranno in pensione. La maggior parte dei giovani – oltre a dover fare i conti con la l’incertezza lavorativa ed economica che amputa la loro vita di una sua componente essenziale, la progettualità – deve anche affrontare le delusioni derivanti dalla consapevolezza che gli anni di impegno e studio, i successi raccolti a scuola o all’università, non contano quasi nulla. Le competenze acquisite devono essere svendute per accettare lavori sottopagati o al di sotto del proprio livello di istruzione, perché è meglio accontentarsi e lavorare, anziché lottare per dei riconoscimenti che forse non arriveranno mai. I trentenni di oggi soccombono alla furia dello onde della precarietà e accettano di vivacchiare, in attesa che la classe generazionale che li gestisce e che ha deciso il loro futuro faccia leggi adeguate o dispensi consigli utili. Certo, la crisi è generale ed esiste per tutti; basti pensare ai cassintegrati delle nostre grandi aziende che spesso si ritrovano in panchina sul finire della loro carriera lavorativa. E tuttavia, bisogna riconoscere che quella dei trentenni di oggi è, per antonomasia, la generazione della crisi, che è stata tirata su per avere un role set di rilievo e che invece si ritrova oggi ad occupare instabili nicchie.Non è detto, però, che questo gruppo sociale non decida di risollevarsi dal torpore figlio della sfiducia, e si ribelli alla condanna ad una vita in fuori gioco. Come spesso accade, il primo segnale di risveglio viene dalla Francia: il trentenne Julien Bayou, uno dei co-fondatori del movimento “Génération Précaire” (www.generation-precaire.org/) che si propone di pressare governo e parti sociali per ottenere delle riforme utili, ha di recente sottolineato come la crisi derivi anche dal divorzio di giovani e istituzioni. Occorrerebbe che più giovani si interessassero attivamente di politica e che penetrassero nei sindacati, per cambiare da dentro le regole. Julien Bayou ha anche creato una rete più ampia, “Generation P”, ove la lettera P sta per “praktikum” (stage) in tedesco, “precario” in italiano e “precaire” in francese, che si propone di dare una dimensione europea al movimento. Tuttavia, le attività di queste organizzazioni procedono con grosse difficoltà a causa della scarsa rappresentanza di giovani nei parlamenti nazionali e in quello europeo. Ma anche solo la mobilitazione di questo gruppo sociale è da considerarsi un segnale positivo, poiché indica che alcuni giovani non si arrendono alla crisi e alle decisioni politiche che propongono come unica soluzione il prolungamento dell’età lavorativa, scalzando in questo modo la loro generazione smarrita – o ingannata – sempre più in direzione della precarietà e della disoccupazione.Vivien Buonocore