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Leggi elettorali del Regno d'Italia La legge del 22 gennaio 1882, n. 999, nacque da un progetto presentato da Benedetto Cairoli, presidente del consiglio dal 26 marzo 1878 ed esponente della sinistra storica. Essa ammise all'elettorato tutti i cittadini maggiorenni che avessero superato l'esame del corso elementare obbligatorio oppure pagassero un contributo annuo di lire 19,80; in tal modo si realizzò un cospicuo allargamento del corpo elettorale che passò da circa 628.000 ad oltre 2.000.000 di elettori, cioè dal 2% al 7% della popolazione totale che contava 28.452.000 abitanti. Furono anche modificate le circoscrizioni con riferimento alle province e si costituirono collegi con due e fino a cinque rappresentanti, adottando lo scrutinio di lista. Venne così abolito lo scrutinio uninominale, ma l'esperimento non diede risultati soddisfacenti e con la legge 5 maggio 1891, n. 210, si tornò al precedente sistema uninominale a doppio turno. Questa normativa elettorale restò in vigore per nove legislature dal 1882 al 1913. Su pressione delle organizzazioni popolari di massa, in particolare quelle socialiste, ma anche quelle cattoliche, il suffragio universale maschile fu introdotto dal governo Giolitti con la legge del 30 giugno 1912, n. 666. L'elettorato attivo fu esteso a tutti i cittadini maschi di età superiore ai 30 anni senza alcun requisito di censo né di istruzione, restando ferme per i maggiorenni di età inferiore ai 30 anni le condizioni di censo o di prestazione del servizio militare o il possesso di titoli di studio già richiesti in precedenza. Il corpo elettorale passò da 3.300.000 a 8.443.205, di cui 2.500.000 analfabeti, pari al 23,2% della popolazione. Non si attuò invece la revisione dei collegi elettorali in base ai censimenti. La Camera respinse a grande maggioranza con votazione per appello nominale la concessione del voto alle donne. Nel clima culturale del primo Novecento, in cui la fiducia nel progresso tecnico e scientifico attribuiva agli inventori il compito di risolvere ogni problema, anche la Commissione parlamentare che esaminò il disegno di legge sull'allargamento del suffragio dedicò attenzione a decine di inventori di "votometri" e "votografi", precursori del voto elettronico. Questa normativa fu impiegata nelle sole elezioni politiche italiane del 1913. Al termine del primo conflitto mondiale la legge 16 dicembre 1918, n. 1985, ampliò il suffragio estendendolo a tutti i cittadini maschi che avessero compiuto il 21º anno di età e, prescindendo dai limiti di età, a tutti coloro che avessero prestato servizio nell'esercito mobilitato. Inoltre, l'idea di una riforma del sistema elettorale in senso proporzionale, promossa dalle forze politiche d'ispirazione socialista e cattolica, si impose nel dopoguerra. Il 9 agosto 1918 la Camera votò a scrutinio segreto la nuova legge elettorale con 224 voti a favore e 63 contrari. Con la legge 15 agosto 1919, n. 1401, fu introdotto il sistema proporzionale. Base dei collegi divennero le province, ma con riguardo anche alla popolazione in modo tale che ad ogni collegio corrispondessero almeno 10 eletti. Questa normativa, presentata dal governo Orlando, fu impiegata nelle elezioni politiche italiane del 1919 e nelle elezioni politiche italiane del 1921. Giunto al potere alla fine del 1922, Benito Mussolini manifestò subito la volontà di modificare il sistema elettorale per costituirsi una Camera favorevole e di indire nuove elezioni. La legge elettorale del 18 novembre 1923, n. 2444, meglio nota come legge Acerbo (dal nome del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giacomo Acerbo, che ne fu l'estensore materiale), rispose a questa esigenza introducendo un sistema che prevedeva l'introduzione nel territorio dello Stato del Collegio Unico nazionale attribuendo due terzi dei seggi alla lista che avesse riportato la maggioranza relativa (purché superiore al 25%), mentre l'altro terzo sarebbe stato ripartito proporzionalmente tra le altre liste di minoranza su base regionale e con criterio proporzionale. Questa normativa fu impiegata nelle elezioni politiche italiane del 1924. Nel 1928, il disegno di legge sulla riforma della rappresentanza politica presentato dal ministro della giustizia Alfredo Rocco introdusse un nuovo sistema elettorale che, negando la sovranità popolare e liquidando l'esperienza parlamentare, contribuiva alla realizzazione di un regime autoritario basato sulla figura del Capo del Governo. Il provvedimento approvato senza discussione riduceva le elezioni all'approvazione di una lista unica nazionale di 400 candidati, prevedendo la presentazione di liste concorrenti solo quando la lista unica non fosse stata approvata dal corpo elettorale. La compilazione della lista era compito del Gran Consiglio del Fascismo, dopo aver raccolto le designazioni dei candidati da parte delle confederazioni nazionali di sindacati legalmente riconosciute ed altri enti ed associazioni nazionali. (Testo unico 2 settembre 1928, n. 1993). Questa normativa fu impiegata nel plebiscito del 1929 e nel plebiscito del 1934. Il sistema elettivo fu poi abbandonato nel 1939; la Camera dei deputati venne soppressa ed al suo posto venne istituita la Camera dei Fasci e delle Corporazioni di cui facevano parte coloro che rivestivano determinate cariche politico-amministrative in alcuni organi collegiali del regime e per la durata della stesse. |
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