Libertà di opinione

Dal blog "toghe rotte" di Bruno Tinti


27 febbraio 2010 Bruno Tinti C'era una voltaMolti anni fa mi capitò di procedere contro uno stimato professionista per frode fiscale: si “dimenticava” ogni anno imposte pari, più o meno, a 200 milioni di lire. A quei tempi c’erano tante cose che oggi non ci sono più: una legge che perseguiva gli evasori, un codice di procedura che assicurava la ragionevole durata del processo (altro che l’aborto costruito con l’art. 111 della Costituzione), carcerazione preventiva e interrogatori che permettevano di evitare la farsa di dichiarazioni concordate con coimputati, testimoni e difensori. Così il processo andò avanti rapidamente: sequestro della contabilità, esame della documentazione bancaria, consulenza contabile. Alla fine il nostro sarebbe stato condannato a una pena variabile tra 8 e 18 mesi; naturalmente con la sospensione condizionale della pena, che significa niente prigione. Certo, avrebbe dovuto pagare le imposte evase e le sanzioni tributarie; ma quello avrebbe dovuto farlo comunque. Ma il professore (era anche professore universitario) provò qualche scorciatoia; tramite amici, appartenenti al suo club più o meno esclusivo, trovò un ufficiale della Guardia di finanza disposto ad avvicinare i suoi colleghi che lavoravano con me e a proporgli di “aggiustare le cose”. “Il professore ve ne sarà grato”, gli disse. Gli andò male perché i due marescialli denunciarono il fatto; e io, nel pieno rispetto della legge (quella che c’era allora, oggi sarebbe stato parecchio più complicato) arrestai professore e ufficiale della Gdf. Oggi i due sarebbero condotti immediatamente in carcere, a dividere la cella con qualche pericoloso delinquente, magari un po’ maniaco; il pm non potrebbe interrogarli prima del gip, che lo dovrebbe fare entro 48 ore; nel frattempo qualche palla si organizza. Ma allora io li feci portare nelle celle di sicurezza della Gdf (una confortevole camera con letto, armadio, tavolo e bagno; un po’ una pensioncina da una stella) e interrogai subito il professore che confessò tutto. Poi interrogai l’ufficiale della Gdf che confessò anche lui. E tutti a casa, in attesa di una condanna a 3 anni complessivi. Poi arrivò uno dei tanti indulti. La cosa che voglio raccontare è però questa. Finito l’interrogatorio del professore, non resistetti alla tentazione e gli chiesi: “Ma perché lo ha fatto? Il suo avvocato (aveva un avvocato bravissimo) glielo avrà certamente detto: non rischi praticamente nulla, solo un po’ di soldi. Perché andare a corrompere un maresciallo?” E lui: “Sì, ha ragione. Ma vede, io ho vissuto per tanti anni negli Stati Uniti. E lì la condanna per frode fiscale è una cosa grave. Io sapevo che qui in Italia non sarebbe stato un problema di prigione. Ma lì negli Usa in questi casi si perde lo status sociale: ti cacciano dal country club; tua moglie non è più invitata alle gare di torta alla frutta; i vicini non vengono nel tuo giardino per il barbecue. Insomma, diventi un reietto. E io ho avuto paura”. E’ un paradosso che quella paura abbia spinto il professore a commettere un altro reato, oltre l’evasione fiscale; e non invece a pagare le imposte dovute. Ma almeno la consapevolezza dell’illiceità, anzi dell’immoralità, di un simile comportamento lui l’ebbe. Oggi, con un presidente del Consiglio che spiega che è del tutto naturale possedere 64 società off shore perché “mi servivano per evadere le imposte” (processo All Iberian); e che sostiene che i pm che scoprono la corruzione dilagante “si debbono vergognare”, come si può sperare di diventare un paese civile e moderatamente legale? Non si può, appunto. Da il Fatto Quotidiano del 26 febbraio