Labirinti letterari

La forza d'urto dell'anima poetante


Nota di Gabriella Cinti alla silloge poeticaEsercizi di immortalitàdi Marco BelocchiEdizioni Progetto Cultura Scorrendo le poesie di Esercizi di immortalità di Marco Belocchi compaiono, come su una quinta teatrale, peraltro consona - anche professionalmente - all' indole di questo poeta, il  senso di una inquieta ricerca esistenziale, una serrata investigazione del mondo, il colloquio inesausto con l'altro,  specie femminile, alimentato da misteriche certezze, lo struggimento del non sperare inteso come deprivazione vitale, lo scarto dal possibile nell'agnizione che è amorosa quanto ontologica.  Cogliamo ripetutamente nei versi, una visione entropica alleggerita da una ironia carezzevole, la percezione di un trasmutare non solo e non tanto rigenerante quanto piuttosto  straniante, in direzione di un crudele indifferenziato, nella difficoltà di trovare un baricento identitario. Su tutto, domina il nostos algos del mondo greco, il faro unitario dello Sfero parmenideo. Trapela, inoltre, il tema della epifania amorosa, equorea e cromatica percezione espressa con grande densità cromatica, così come vette di straordinario lirismo affiorano in versi come " io ti aspettavo, mia ninfa di abisso/dagli occhi d'acqua e di lapislazzuli/ il mito primevo si specchia sul fondo/ faceva l'amore / e impacciate non erano le trame dei sogni", in cui la creatura amata, approdata dal mito, diventa guida destinica verso l'oltre. Questo "oltre" appare un superuranio di supremo Compimento, per grazia dell'amore, salvifico per eccellenza. E  tale compito soteriologico risuona in versi struggenti, nella evocazione di un'agnizione a ritroso, auspicata con un struggimento eucologico "...se i miei occhi...incidere sulla retina / un frammento di bellezza / leggero dalla terra potrei ripartire/ e felice , ritrovata la scintilla / che divina tra le sfere cadde/ doni addietro. "Perdita ontologica e sentimentale, cadute e rimpianti, punteggiano i versi, senza luci consolatorie se non, per il lettore, nella possibilità di riconoscersi in questo destino di sottrazione che tocca quanti abbiano sofferto per amore.Il richiamo al mito si palesa in ripetute presenze, di cui quella più intensa, la figura di Dioniso, colpisce per l'adesione alla complessa natura del "dio clandestino" che il poeta coglie nelle sfaccettature della sua cangiante essenza. Ma, non di meno, veniamo sedotti, all'interno del pantheon evocato da Belocchi, da Afrodite, colta in quell'empito supremo di desiderio e trascinante bellezza che solo la poesia e l'arte possono immortalare. In fondo a questa istanza di divino mitico, lampeggia forse una interrogazione originaria a "gli occhi di Dio", del  quale, pur "senza bocca/ e senza orecchie" -  anzi, spesso "nemico", -  si vagheggia anche solo il dono di uno sguardo. Nella percezione di un Kronos distruttivo, che tutto trasforma senza pietà, pure si leva la voce invocante il prodigio, nella sola forma concessa a un poeta, la parola, che sfida Tempo e Morte, per proporgli il patto incantato della eternità d'istante.Amo cogliere  in questi versi, infine, un messaggio paradossale di permanenza, pur nella generale frana del mondo, quella longue durée della poesia che "vince di mille secoli il silenzio", anche nel pathos epico del profetismo apocalittico di "Apocalissi nel deserto": la rivoluzione della poesia che rovescia - kataballei- il grado zero dell'essere nella forza d'urto dell'anima poetante.