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Intervista a Laura Dina Borromeo

Post n°70 pubblicato il 07 Maggio 2021 da touchstone0
 
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Marco Belocchi intervista Laura Dina Borromeo
Vorrei che la notte
di Laura Dina Borromeo
Edizioni Lithos 2020

1. Vorrei che la notte, volume di racconti edito da Lithos nella collana Portoro, è la tua prima pubblicazione, cosa significa per te affacciarti al mondo editoriale, confrontarti con un pubblico, piccolo o grande che sia? 

Come per ogni scrittore, vedere le mie opere stampate e proposte al pubblico è la realizzazione, non di uno, ma "del Sogno" e sono particolarmente grata alla Lithos per la professionalità con cui sono stata supportata nella stesura finale del libro.
Per me il confronto con i lettori è il sale dello scrivere. Ogni storia ha bisogno d'essere condivisa e suscitare emozioni per prendere vita; così, quando un personaggio viene amato o odiato, quando mi viene chiesto cosa gli succederà dopo o qual era il suo passato, allora sento d'aver scritto qualcosa di buono. Per esempio, uno dei miei "talismani" è un grande disegno ispirato a una mia fiaba e realizzato da un bimbo affetto da autismo.  Può sembrare singolare, ma ciò che me lo rende così caro, oltre a saperlo parte di un percorso difficile, è stata la preoccupazione del bambino di riuscire a "far star bene" il suo personaggio preferito, disegnandolo su un grande cuscino. 

2. Tu scrivi racconti storici, ovvero ambientati in varie epoche storiche, dall'impero romano, al XVII secolo, fino alla recente guerra cecena. Il prof. Giorgio Patrizi nella sua prefazione scrive: "Sorprende la disinvolta gestione di una voce che attraversa le più impervie lontananze, temporali e spaziali, per ritrovare sempre una puntuale dizione dei fatti e dei sentimenti, anche con il gusto (e la sapienza) di mescolare codici narrativi diversi, articolare il registro, essenziale eppure di sobria eleganza, di una narrazione realistica lineare...". Ci puoi raccontare come nascono le storie e che tipo di ricerche fai per arrivare ad ambientare le narrazioni in maniera così credibile? 

Innanzitutto, ci tengo molto a ringraziare il professor Patrizi per aver dedicato tempo e parole alla mia opera e spero che il giudizio dei lettori concordi con il suo. Fondamentalmente, io amo la Storia e la ricostruzione storica rigorosa, ma il punto di partenza è sempre un dettaglio, una scena che mi coinvolge tanto da sentire nella pelle il vissuto dei protagonisti. Allora cerco d'immergermi nello spirito del tempo e dei luoghi ed è questo il motivo per cui la fase di ricerca è sempre piuttosto lunga. Di solito mi rifaccio a immagini dell'epoca, che siano foto, quadri o ricostruzioni dell'architettura, ma anche a mappe o particolari dell'ambiente naturale. Insomma, a tutto ciò che mi consente di creare "un'esperienza visiva". Qualora siano presenti, leggo atti, corrispondenze e pagine di diario; infine, li abbino allo studio di tradizioni e miti del luogo, per immaginare un modo di pensare e atteggiarsi diverso dal mio.
Credo che il mutare di gesti ed espressioni nella Storia sia una manifestazione dell'infinita poliedricità dell'uomo e ammetto di esserne affascinata. D'altra parte, i miei scritti non sono saggi, quindi posso prendermi la libertà di adattare, restando nei limiti della veridicità storica, i protagonisti al messaggio che voglio trasmettere. Talvolta opto semplicemente per l'aggiunta di un personaggio secondario di fantasia o di una riflessione. In ogni caso mi piace dare un risvolto etico a ciò che racconto. 

3. Qual è il tuo background di scrittrice, quali sono i tuoi riferimenti di formazione letteraria? 

Prima ancora che una scrittrice, ritengo d'essere una lettrice, accanita e onnivora, che ha avuto la fortuna di avere a disposizione un'ampia biblioteca di famiglia. Non riesco a immaginare una vita senza libri, così come senza musica o sogni. Infatti, sebbene consideri un punto di riferimento autori quali Umberto Eco, Dacia Maraini e Marguerite Yourcenar o, andando più indietro nel tempo, il Vasari, leggo spesso testi improntati a una visione onirico-simbolica, spaziando dai racconti di Tabucchi ai romanzi di Zusak, o narrazioni che attingano alla mitologia, sul genere di Cassandra di Christa Wolf.
Probabilmente devo alla mia formazione scolastica (un insolito percorso artistico-scientifico) la ricerca di una scrittura in cui pathos e dettagli accurati si combinano con l'immediatezza di un affresco, ma la tendenza a indagare i sentimenti è sicuramente parte del mio DNA. Da bambina adoravo ascoltare il racconto degli scritti del nonno per "l'amore illustrato", un giornale del primo '900, o delle sue esperienze nell'accademia dei Rozzi.
Tradizioni. Storie di famiglia. Emozioni che trasformano il passato in un romanzo d'avventura. Sono questi gli ingredienti che mi fanno vedere la Storia come uno scrigno pieno d'inestimabili tesori. 

4. Il racconto che apre la raccolta "La libertà aveva i colori dell'argilla" ha vinto il primo premio al concorso letterario La Clessidra nel 2019. Partecipi spesso a premi letterari? Li trovi validi? Qual è la tua esperienza? 

Ho iniziato a partecipare a concorsi letterari nel 2017 ed è stata un'esperienza entusiasmante, non solo perché i premi vinti mi hanno dato una conferma positiva sul mio modo di scrivere, ma anche perché gli eventi stessi erano ricchi di stimoli interessanti. Ho avuto la possibilità d'incontrare persone amanti della cultura e impegnate nel promuoverla, nonché di apprezzare realtà italiane che non conoscevo e associazioni attive sul territorio con iniziative educative e benefiche. In realtà, non so se tutti i concorsi siano ugualmente seri o se io sia stata particolarmente fortunata. In ogni caso, penso che essere letti e giudicati da persone competenti e il confronto con altri scrittori sia un'ottima occasione di crescita. 

5. I tuoi prossimi progetti? 

In questo momento, dopo aver vissuto, come molti, un periodo difficile legato alla pandemia, ho voglia più che mai di rimettermi in gioco e sto lavorando essenzialmente a due progetti.
Il primo è una raccolta di racconti ambientati in luoghi e tempi molto diversi, dall'Egitto dei Faraoni all'Europa della Seconda Guerra Mondiale, e il cui filo conduttore è "il falso" inteso come maschera, ma anche truffa, inganno o illusione. In ogni storia risulta essere proprio "ciò che vero non è" a consentire ai protagonisti di dar vita alla propria intima, e talvolta negata, verità.
Il secondo, invece, è un romanzo in cui vicende e personaggi di fantasia si collocano in una ricostruzione della Sicilia del XV secolo. È una storia corale in cui i protagonisti si scontrano con gli equilibri complessi di una società multietnica, con una Chiesa in bilico tra corruzione e Inquisizione e poteri occulti più forti delle Leggi, scoprendo che il senso dell'onore si trova là, dove nessuno avrebbe mai pensato di cercarlo.

 

 

 
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Intervista a Maurizio Mazzurco

Post n°69 pubblicato il 14 Aprile 2021 da touchstone0
 
Tag: poesia
Foto di touchstone0

Marco Belocchi intervista Maurizio Mazzurco
Giochi innocenti
di Maurizio Mazzurco
Edizioni Lithos 2021

1. Scrivi poesie da 50 anni e, come indichi nella tua nota biografica, hai avuto un silenzio per molti decenni, almeno dal punto di vista delle pubblicazioni. Ora, negli ultimi cinque anni hai già pubblicato tre sillogi. Come hai vissuto, da un punto di vista creativo ed evolutivo, sul piano della scrittura, questo lungo periodo?

La mia vita è trascorsa come quella di tanti, studio, lavoro, famiglia e problemi pratici, ma ... fin da ragazzo ho scritto poesie, che non sono quasi mai uscite da una piccola cerchia di amici e conoscenti. Per molti anni sono rimaste accantonate, tranne un paio di timidi tentativi, sfizi di gioventù. Riprendo tuttavia un brano dell'introduzione alla mia prima raccolta, pubblicata quasi quarant'anni fa a mie spese; vi scrivevo qualcosa che per me è ancora valido: "Questo libro è risultato e segno di un cammino iniziato nell'adolescenza semplicemente come espressione di una sofferta crisi esistenziale, poi questo cammino si è approfondito, divenendo sempre più consapevole ricerca; il legame con la poesia si è fatto quasi una vicenda, un rapporto personale; la poesia è diventata una coscienza, un modo di esprimere l'uomo e di vivere". Col tempo coscienza anche solidale, che ha voluto andare incontro agli uomini e al mondo, facendosi molte domande in tutta sincerità, senza avere risposte pronte.
Il percorso è continuato con alterne vicende lungo tutta la mia vita, alternando momenti di fecondità e di aridità, accogliendo la cosiddetta ispirazione come veniva, senza riflettere sul come e sul perché, acquistando un'esperienza artigianale.
Ho vissuto questo lungo periodo registrando me stesso e i miei versi, senza pensare ad altro. Poi cinque anni fa, dopo più di trent'anni, ha preso forma un'idea: perché non pubblicare ancora le mie poesie? Sono uscito di casa e ho fatto tanti incontri. Grazie alle nuove esperienze e al confronto vivo con altri poeti dalle personalità più varie, mi sembra di aver subito un'evoluzione notevole e di aver imparato tanto, in un periodo così breve.

2. Inevitabilmente ognuno ha i propri padri letterari, la tua poesia mi sembra affondi le sue radici in una certa poesia novecentesca che ritrova forse in Montale o Saba alcuni punti di riferimento. Quindi se sono loro, o altri, qual è stata per te la loro lezione?

A proposito di radici, forse molto ha significato per me trovarmi a vivere da sradicato. Nato a Udine da genitori siciliani, trasferito a Roma a 18 anni. "La sorte mi ha riservato l'esperienza / di essere estraneo nei luoghi aviti / e dove sono nato e dove vivo e dove finirò." (Da L'esperienza della vita, Edizioni Ensemble, Roma, 2018).
Ho una formazione classica e una cultura eclettica e assai poco sistematica, forse carente su alcuni versanti, ma in effetti la mia scrittura, pur non essendo, almeno spero, antiquata, è legata al passato.
In Giochi innocenti dico a me stesso "Ti inzacchera il pantano / del secolo scorso".
Nel tempo ho attraversato predilezioni diverse; forse gli echi più evidenti qui provengono da Montale, Saba, Betocchi, a cui aggiungo Biagio Marin, mia recente rilettura. Se voglio riconoscere i miei padri letterari e poetici, tuttavia, forse devo risalire alla Bibbia e al teatro di Shakespeare, in cui, osservati da diversi punti di vista, credo si rispecchino profondamente i vari aspetti della condizione umana.

3. Giochi innocenti, che ricordiamo è stato appena pubblicato dalla casa editrice Lithos, è la tua quinta silloge. Come scrive il prof. Giorgio Patrizi nella sua autorevole prefazione, questi giochi si pongono come tutt'altro che innocenti, "...di una significativa varietà e investono diversi livelli dell'esistenza, dal quotidiano che nasconde sorprese e inganni alla fantasia talora salvifica talora malinconica". Ti ci ritrovi in questa definizione? Come hai costruito la silloge, su quali temi centrali?

All'apprezzamento e alla prefazione di Giorgio Patrizi tenevo molto. Quando ho letto "Maurizio Mazzurco [...] ormai da tempo frequenta le stanze della poesia con l'esperienza e la saggezza - ma anche con la passione - di chi sa come la pagina scritta sia uno dei luoghi in cui possono accadere le cose più varie e singolari che si diano ad esperire", per me è stato come ottenere sul campo un diploma di laurea.
Giochi innocenti è il titolo di questa raccolta e della poesia che la apre. Che cosa sono alla fine le poesie? Giochi innocenti, con quello che si usa aggiungere. Il filo conduttore è quello delle stagioni: "Cerco stagione / per dare un senso a questo / scomposto sonno"; "infida è l'aria, / il mito è solo / un calco vuoto, ma non smette il canto". Ho raccolto qui più che altrove reperti, brandelli tratti dalla vita quotidiana mia e altrui e dalla realtà virtuale registrandoli, mi sembra, con franchezza e ironia, ma in fondo anche con un po' di compassione: "La cara amica lasciata adolescente / non è caduta all'apparir del vero; / riemersa dalla nube dei vent'anni / ha lottato è caduta si è rialzata / e senza poesia continua a fare il suo / come può."
Resta presente nei versi il pensiero dell'ultimo messaggio, dell'ultimo inverno: "Libero un pettirosso taglia l'aria / in attesa. Quello che spunterà / forse non sarà l'ultimo germoglio."

4. Sappiamo, frequentando il mondo letterario, dell'annosa questione che la poesia è molto scritta e poco letta, che spesso ci si accosta al fare poetico pensando che basti avere solo "una certa sensibilità", e non invece almeno una conoscenza di base dei cardini della poesia occidentale e magari anche delle regole che ne hanno dominato la struttura per secoli. Qual è la tua posizione?

In questi cinque anni ho sentito dire tante volte le stesse cose: tutti scrivono e nessuno legge, troppa velocità, minimalismo beota, nuova estetica, nuovi canali, nuovi linguaggi, nuovi progetti; qual è il futuro della poesia, il linguaggio si impoverisce; tutto congiura per un livellamento dell'essere umano verso il basso.
Che cos'è la poesia, a parte non andare a capo a fine riga, non lo so dire. Sarei molto ecumenico, c'è posto per tutti; ognuno, con onestà intellettuale, fa come vuole.
Tuttavia, a parte le questioni epocali ed estetiche, personalmente sono convinto che prima di scrivere bisogna leggere, e anche parecchio; se non conosciamo e conserviamo il nostro passato siamo senza futuro e, se vogliamo rompere le regole, le dobbiamo prima almeno conoscere. Per me è stata un'esperienza avvincente e sfidante affrontare, a 65 anni per la prima volta, la scrittura in terza rima.
Mi auguro di continuare questo cammino latrando silenzi al vento, secondo il titolo, con licenza poetica, di una delle mie sillogi (Enoteca Letteraria, Roma, 2016). Vorrei tanto fare lunghi latrati di silenzio, che il vento porta ai confini del mondo.

 

Maurizio Mazzurco
Pubblicazioni precedenti: Poetica, stampato in proprio, Roma, 1983; Non altrove, Lo Faro Editore, Roma, 1985; Latrando silenzi al vento, Enoteca Letteraria, Roma, 2016 (vincitore premio Patria Letteratura 2017); L'esperienza della vita, Edizioni Ensemble, Roma, 2018.

Cura il blog letterario https://mau56f7.wordpress.com/ 

 

 

 

 
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La fotografia invisibile

Post n°68 pubblicato il 18 Aprile 2019 da touchstone0
 
Tag: poesia

Postfazione di Marco Belocchi alla sillloge poetica
Cemento armato di Santa Pazienza (poesie 1993-2018)
di Lorenzo Pompeo
Edizione Progetto Cultura 2019

   La frequentazione con Lorenzo Pompeo risale ai primi anni novanta, quando si seguiva insieme il laboratorio di drammaturgia del compianto Mario Prosperi al Teatro Politecnico, uno spazio che ormai è stato consegnato alla storia del teatro romano d'avanguardia e che, chiusi definitivamente i battenti nel 2008, fu attiva fucina di autori e registi teatrali per oltre un trentennio. Non solo, sempre in quegli anni, insieme ad altri giovani poeti inauguravamo il LARP (Laboratorio aperto di ricerca poetica), centro di dibattito, e talvolta di scontro polemico, che in qualche modo si adoperava per un rinnovamento della ricerca poetica attraverso incontri e reading fuori dai luoghi deputati; esperienza che culminò, prima della inevitabile dispersione, con un'antologia, ormai introvabile, pubblicata nel 1993 da Stampa Alternativa.

  Ma se molti di questi compagni di viaggio hanno preso strade diverse, o semplicemente, come spesso avviene, si sono diradate le occasioni d'incontro, con Lorenzo è rimasta un'amicizia che si fondava, non solo su interessi comuni, ma su comuni intenti e fecondi scambi letterari, teatrali e infine cinematografici. La sua formazione di slavista e traduttore dal polacco, russo e ucraino, che l'ha portato necessariamente a frequentare letterature in Italia poco tradotte e quindi il suo attivo e infaticabile adoperarsi come possibile ponte tra una cultura dell'est europeo che solo da poco, abbattuti i muri berlinesi, si preparava a uscire fuori da un isolamento sin troppo lungo, trovava una sponda nel mio lavoro di operatore teatrale, riuscendo così a proporre testi drammaturgici della contemporaneità russa o polacca all'attenzione, se pur esigua, della scena romana. Come pure le rassegne, sul versante cinematografico, di pellicole ungheresi o polacche che, salvo qualche eccezione, potevano essere fruite solo dai frequentatori di festival internazionali.

   Ebbene accanto a tutto questo lavorio, Pompeo, in realtà, non ha mai dismesso i panni dell'autore tout-court e se forse ha abbandonato la scrittura scenica, (ma chi può dire cosa si celi nei cassetti del suo scrittoio informatico) la tentazione della poesia e della narrativa ha costantemente accompagnato le sue abituali passeggiate in terre slave, iscrivendo al suo attivo una raccolta di racconti (già prefata dal sottoscritto) e un primo romanzo, cui a breve ne seguirà un secondo. Mentre la poesia, in questi anni, faceva solo capolino in alcune antologie o su qualche rivista, in maniera sparsa e, mi viene da dire quasi pigra, come dovesse uscire da un bozzolo senza la voglia di rendersi farfalla ("parole-farfalle si disperdono / nei celesti labirinti vegetale). E forse a questo è servita la "Santa Pazienza" del titolo proposto da Pompeo per la sua silloge, una pazienza però sorretta da cemento armato, da una solidità letteraria e da studi matti (e fors'anche disperatissimi) con i quali il nostro filtra i suoi versi, senza avere quella logorrea lirica di tanti autori che oggi sfornano una silloge ogni due anni!

   Pompeo ci consegna un distillato di venticinque anni di poesia, dove non si avverte l'usura del tempo, né le effimere mode culturali che nel frattempo hanno attanagliato il fare poetico, componendo in realtà un corpo unico e riconoscibile dove, al di là delle occasioni, sempre s'interroga sul senso della letteratura, nell'indagine ossessiva e maniacale dove "parole-formiche si ostinano / nella ricerca del verbo scomparso". La letteratura, quindi, come dipendenza irrinunciabile dallo scrivere, il dover scrivere o riscrivere, che sarebbe poi il continuo "tradurre immerso negli etimi e nei trattati in un rapporto fagocitante e assoluto".

   Infine l'istante, la fotografia, (a cui Pompeo ha dedicato un'altra parte della sua attività più o meno recente), il fermo-immagine che, se da un lato si apparenta al cinema, se ne discosta in realtà sul piano del tempo e della durata. La poesia è in qualche modo anche fotografia? Si domanda Lorenzo in una delle sue liriche più brevi e intense della raccolta, come fosse una serie di scatti che cercano di delimitare il confine semiotico della poesia. È una delle possibilità, ma per esserlo la foto deve rendersi invisibile, andare oltre il dato sensibile, diventare un'istantanea che riesca a cogliere lo sguardo dell'immaginario.

 

 

 
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Duello per il sole

Post n°67 pubblicato il 22 Giugno 2018 da touchstone0
 

DUELLO PER IL SOLE
Palinodia per il solstizio d'estate 

   Paventavo, come sempre, il suo arrivo. 
   Mi dibattevo inerme tra le giornate diseguali che mi aggredivano con una regolarità disarmante. Ma si avvicinava inesorabile come una giustizia divina, da cui non puoi nasconderti, che non puoi evitare, perché sai che prima o poi ti troverà, anche ai confini del mondo.
   Cercai dei diversivi. Addestrai la mia mente a concentrarsi su pensieri freddi che a loro volta avrebbero addestrato il corpo a combattere quando sarebbe giunto il momento dello scontro. Intanto il calendario lentamente si assottigliava, la notte perdeva terreno e il buio pian piano si scrostava dalle case. Dovevo raccogliere le forze, evitare qualsiasi dispersione di energia, non soccombere alla calura.
   Infine arrivò.
   Era sfolgorante nella sua luce piena, come Achille sulla piana di Troia. Per un attimo ripensai a quante volte l'avevo già incontrata ed ebbi un moto di nostalgia. Un indugio sarebbe però stato fatale. Dovevo affrontarla quel giorno e solo quello se volevo averne ragione.
   Ci fronteggiammo come fossimo in un duello di altre epoche, ma non era per una donna contesa o per l'onore infangato che ci stavamo battendo, e nemmeno per la conquista di una città. La nostra era una questione di mera sopravvivenza.
   Era giovane e forte, e sicura di sé. Per questo forse, al calare della sera, ebbi il sopravvento e infine l'uccisi: il 21 giugno finalmente uccisi l'estate nascente. La seppellii la notte stessa, quando il sole era rivolto da un'altra parte e non poteva accorgersi di nulla.
   Da quel giorno il freddo invase la Terra, questa cambiò nome e iniziò il futuro.

 
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L'occhio che scrive

Post n°66 pubblicato il 16 Giugno 2018 da touchstone0
 

Prefazione di Marco Belocchi ai racconti
Auto-pseudo-bio-grafo-mania
di Lorenzo Pompeo
Edizione Ibiskos

Conosco Lorenzo Pompeo da molti anni e insieme abbiamo condiviso diverse esperienze letterarie: siamo stati tra i fondatori del LARP (Laboratorio aperto di ricerca poetica) che nei primi anni novanta visse alcune felici stagioni prima di disgregarsi in mille rivoli. Ma con Lorenzo ho mantenuto una relazione durevole, vuoi per la comune passione per la letteratura, vuoi per l'altrettanto "deleteria" passione per il teatro. Così ci siamo ritrovati a scrivere testi teatrali, talvolta un po' scombinati, talvolta con felici intuizioni, fino a condividere poi le nostre conoscenze cinematografiche e a farle confluire nella cura di rassegne di cinema contemporaneo, soprattutto dell'Europa orientale.

Già l'Est. Perché Lorenzo Pompeo, non va dimenticato, è soprattutto uno slavista, un profondo conoscitore di lingue poco frequentate in Italia quali il polacco, l'ucraino e il russo. E da queste culture, da queste parole, da questi popoli, ha introitato un gusto, e forse una visione della vita - che noi assaporiamo quasi solo attraverso i grandi narratori russi dell'ottocento - che in qualche modo, inconsciamente mi verrebbe da dire, restituisce nella sua scrittura, con quell'ironia amara, al limite del burlesco che ritroviamo nei primi racconti di Cechov o nei vagabondaggi tra le morte anime gogoliane. Quell'osservazione della realtà attraverso punti di vista diversi, ruotando lo sguardo di 90° per scoprire meccanismi apparentemente celati, ma che una visione solo appena più attenta ne rivela tutta la loro assurdità. Quasi tutti i racconti di questa raccolta hanno in comune l'atto del guardare, l'occhio ha la sua parte, l'abitudine da cinefilo consumato di soffermarsi sui dettagli dell'inquadratura, in questo caso della vita, del quotidiano, denunciarne gli ingranaggi senza avere la pretesa di risolverne le infinite contraddizioni, ma sottoponendole ad uno sguardo da entomologo.

Ma il guardare, per l'autore, presume in questo caso anche un altro atto fondamentale: essere guardati, la sensazione terribile che mentre noi siamo intenti a compiere con attenzione l'atto di osservare, c'è qualcun altro che osserva noi con la stessa curiosità e ironia un po' beffarda, come nel racconto Oggi sono nervoso. Sì, perché se il guardare nasce da un distacco ironico dalla realtà, necessario per sopravvivere nell'assurdo quotidiano, questo atteggiamento non può a sua volta non generare inquietudine, quel "nervosismo" del vivere che ci fa sentire sempre inadeguati, sempre in anticipo o in ritardo, fuori in ogni caso dal convulso, affannoso mondo contemporaneo. Ed ecco allora i brevi tratteggi di una fila alle poste, del rapporto disturbato con un aspirapolvere o con la telecrazia.

Il vero nocciolo di questa raccolta di racconti risiede però nella maniacale, e nello stesso tempo irrinunciabile, dipendenza dalla letteratura, che è poi il vero quotidiano di Lorenzo Pompeo, anche questa una relazione ossessiva, con lo scrivere, il dover scrivere, il tradurre immerso negli etimi e nei trattati in un rapporto fagocitante e assoluto (non dimentichiamo che Pompeo è anche curatore di ben due vocabolari!). Ed eccolo allora esordire, nel racconto che non a caso dà il titolo alla raccolta, con la frase sintomatica: "La letteratura è un mostro che inghiotte le teste degli scrittori", ma, aggiungo, gli scrittori non possono far a meno di essere inghiottiti e di cibarsi a loro volta di letteratura, di libri, di parole. In La confessione di un intellettuale, Pompeo esce decisamente allo scoperto e dichiara, attraverso l'io narrante del protagonista, che il suo vero male sono proprio i libri, "quell'oggetto tanto prezioso quanto inutile che orna i salotti, che riempie gli scaffali delle biblioteche e delle librerie"; un male che nasce pian piano e s'insinua subdolamente sin dalla prima gioventù per poi dilagare nel marasma letterario, dove un titolo tira l'altro, consumando la lettura come un vizio assurdo, che non ha fine perché "tu leggi un libro e poi ti accorgi che ne hanno pubblicati altri due, quattro, sedici , trentadue e così via. Loro lo sanno che non li potrai mai leggere tutti...". Il male di chi è divorato da un tal genere di febbre, di incurabile malattia è proprio questo: l'amara consapevolezza di non poter riuscire a leggere mai, a meno di non essere immortali, tutti i libri, di non approdare mai a quel gradino di Conoscenza, a quell'agognata ultima e definitiva pagina che è il traguardo del lettore accanito.
Così, conclude ironicamente Lorenzo, bisognerebbe convincere i vostri figli a smettere di leggere, a non lasciarsi travolgere da questa insana passione, ne andrebbe forse della loro possibile felicità!


 

 
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