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"Un re a New York" di Charlie Chaplin, 1957

Post n°538 pubblicato il 29 Ottobre 2005 da samira2

 

Pubblicato da: suede68   il   2003-02-16 12:18:38   L'articolo e' stato letto 6 volte


 

50ggdaorsacchiotto scrive: "
LA STORIA: “Tra le più comuni seccature della vita moderna vanno annoverate le Rivoluzioni”. E’ quanto accade un giorno in Estrovia, immaginario reame dell’Europa orientale, ove il popolo prende d’assalto il palazzo reale per trovarlo vuoto del suo occupante e del relativo tesoro. Re Shahdov, con il suo Primo ministro, è intanto giunto a New York, accolto da una folla di giornalisti, ma anche da sospettosi funzionari dell’immigrazione. Dichiara di avere dei progetti per l’utilizzazione pacifica dell’energia nucleare, ma più che altro si preoccupa dei propri beni, e giustamente: il giorno successivo si accorge infatti che sono stati trafugati dall’infedele ministro, scomparso in Sudamerica unitamente a essi. Con la concessione del divorzio alla consorte, che l’ha sposato solo per ragioni di Stato, sembra chiudersi definitivamente un capitolo.
In un lussuoso appartamento dell’Hotel Ritz, assistito dal proprio solerte ambasciatore, Shahdov inizia il suo soggiorno americano e scopre un mondo di volgarità e di fragore, dominato dal denaro (proprio ciò di cui egli manca), dall’apparenza, dall’esibizione di sé (grazie anche al nuovo uso del mezzo televisivo) e, poi, dal sospetto. Abbindolato dalla bella giornalista Anna Kay, che si lascia “sorprendere” nella stanza da bagno dell’appartamento comunicante, Shahdov partecipa a uno strano ricevimento, compare a sua insaputa in una trasmissione televisiva e – superato lo sdegno – comincia ad apprezzare i vantaggi economici che può garantirgli la pubblicità. Per conservare un’immagine ufficiale visita comunque una scuola-modello, improntata a metodi pedagogici di apparente libertà, e qui, fra gli altri imprevedibili ragazzini, conosce Rupert, sorta di enfant prodige che si occupa di questioni politiche con animata gravità e che contesta l’intero sistema.
La carriera televisiva di Shahdov, sempre assistito dall’interessata ma anche affezionata Anna, si intensifica: uno spot per la pubblicità del whisky, una campagna sugli ormoni del ringiovanimento. Occorre però mostrarsi “prima e dopo la cura”. Il re si sottopone a un’operazione di plastica facciale, con risultati disastrosi: non solo non riesce a riconoscere più se stesso, ma il volto letteralmente gli “esplode” per le risate provocate da uno sketch cui assiste in un night club. Dopo un nuovo intervento, riacquista felice la sua vecchia faccia.
In una serata di neve il re ospita nel proprio appartamento Rupert, che si aggira dinanzi all’albergo. Scopre che i genitori del ragazzo, due insegnanti accusati di attività antiamericane, sono sotto interrogatorio; poiché si rifiutano di fare i nomi dei compagni di idee, vengono condannati a un anno di carcere per oltraggio al Congresso. In assenza del re, Rupert riceve i rappresentanti della Commissione atomica e rende vana la speranza di vendita dei progetti nucleari. Per Shahdov i guai non finiscono qui: accusato a sua volta di essere comunista, viene chiamato a testimoniare, e la citazione gli è fraudolentemente consegnata.
Mentre il ragazzo viene preso in consegna dell’FBI, il re, assistito da un avvocato, si precipita in tribunale, ma per una serie di incidenti ed equivoci finisce con l’innaffiare l’intera Corte. Dimostrata la sua buona fede, decide di lasciare comunque il paese. Proprio mentre si accomiata definitivamente da Anna, un telegramma lo avverte che la regina rinuncia al divorzio.
La partenza non può avvenire senza un saluto a Rupert. E’ un addio tristissimo, poiché il ragazzo – per salvare i propri genitori – si è fatto delatore. Non resta che la speranza: “Quando queste esasperazioni saranno finite, ti inviterò in Europa”, gli dice il re; e aggiunge: “Prima o poi andrà meglio”. L’aereo su cui ha preso posto Shahdov si muove in direzione opposta a quella dell’inizio, forse alla ricerca di una diversa “libertà”.

SUL SET E DINTORNI: Con i tempi di realizzazione che caratterizzano i suoi lungometraggi e, in questo caso, anche con le lentezze attribuibili all’età, non deve sorprendere se già alla fine del 1953 Chaplin parla con consapevolezza e disinvoltura del suo nuovo film, che apparirà sugli schermi solo quattro anni dopo. Sin da allora è alla ricerca di un ragazzo dodicenne come co-protagonista; nel timore che l’idea gli venga soffiata, fa però misteri sul titolo della pellicola: lo annuncia solo nel maggio 1954 – “The ex-king” – aggiungendo tuttavia che si tratterà probabilmente di “una specie di musical”. Forse non ha le idee chiare nemmeno lui se pensa di rispolverare il vecchio progetto di “Shadow and substance”, ideato nel 1941 per Joan Berry (ma quel Shadow, “Ombra”, resta appiccicato al nome del nuovo personaggio, re Shahdov).
Alla sceneggiatura, non esitando a inserirvi gags e battute del passato o scartate in precedenza, Chaplin lavora per tutto il corso del 1954 e del 1955, anno al termine del quale iniziano le altre fasi preparatorie: più complesse o più semplici, a seconda dei casi, non disponendo più il regista dei propri studi né il produttore (che poi è sempre lui stesso) dell’appoggio della potente benchè declinante United Artists. Come produttore associato compare l’amico ed ex collaboratore (è stato infatti assistente in “Luci della ribalta”) Jerry Epstein e i due fondano un’apposita casa di produzione, l’Attica, che si appoggia ai ben noti Shepperton Studios inglesi per le riprese e la post-produzione.
L’aria che si respira sul set è, naturalmente, diversa: i metodi chapliniani sono noti al solo Epstein, manca la solita corte di consiglieri e più o meno fidi (o più o meno repressi) amici, i tempi e le scadenze sono rigidi (bisogna tenere sotto controllo i costi), le costruzioni – niente meno che luoghi, strade e angoli di New York – risultano approssimative. Ma l’ultrasessantacinquenne regista non si dà per vinto e il risultato – da molti punti di vista – lo premia.
Per esempio, la scelta degli attori si rivela felice, forse proprio perché nessuno di essi gode di molta notorietà e per tutti lavorare al fianco del grand’uomo è un riconoscimento ambito o un beneficio da far fruttare. E’ il caso di Dawn Addams, scritturata solo dopo un ripensamento nei confronti di Kay Kendall e abilissima nel non creare problemi; ma è anche il caso di Maxine Audley (la regina Irene, una Claire Bloom un po’ invecchiata) o di Oliver Johnston (lo spiritoso ambasciatore) o di Harry Green (il sin troppo dinamico avvocato).
Un capitolo a sé merita il piccolo Michael, cha al momento delle riprese ha da poco compiuto dieci anni e che si rivela altamente espressivo, con il suo misto di aggressività e di malinconia, di decisione e di tenerezza. Presto tenterà di prendere il volo da solo, anche perché è difficile convivere con un padre come il suo, crescere sotto un’”ombra” oppressiva e – nel privato – neppure molto illuminata.
Maggiori le difficoltà di altro tipo. Per esempio, quella di contenere le riprese entro l’arco di dodici settimane, un tempo record per Chaplin, che è costretto a rinunciare a molte delle consuete “ripetizioni” e a ridurre anche il numero delle prove. Per esempio, quella di stabilire un’intesa con il direttore della fotografia Georges Périnal, grande collaboratore di René Clair, di Julien Duvivier, di Alexander Korda, di Powell e Pressburger, di Alberto Cavalcanti (come lo sarà poi di Preminger, di Donen o di Minnelli): i metodi di lavoro non coincidono, anche se è merito proprio di Périnal il conseguimento di quella patina pseudodocumentaria – fra il cinegiornale e l’emissione televisiva – che assicura al film una sua originalità e il suo resistere al passare del tempo.

LA CRITICA: Al di là di molte contese che hanno insanguinato la critica (e non soltanto essa) negli anni ’50 e ’60 e di cui “Un re a New York” – anche se illustre – costituisce soltanto uno dei tanti esempi, l’aspetto di questo film che ancora oggi sorprende è la sua freschezza o, meglio, la fatica che uno spettatore odierno deve compiere per datarlo. Re (o analoghi potenti) vengono ancor oggi detronizzati; campagne di discriminazione o processi politici sono sulla scena recente di tutto il mondo; l’uso dell’energia nucleare è tuttora (o più che mai) oggetto di discussione; teorie diverse e mode contrastanti si fronteggiano quasi ovunque. Entrando nello specifico, colpiscono invece momenti e argomenti più puntuali che Chaplin affronta nel suo film, con buona aderenza alla società americana dell’epoca ma anche con buona previsione (o preveggenza) nei confronti della società europea dei decenni successivi: sulla base del noto principio che, prima o poi, ciò che è “made in Usa” diventa “remake” dalle nostre parti.
Osserviamo, per esempio, l’invadenza e l’aggressività della televisione, sia quella statale sia quella commerciale, che per noi sono ancora fenomeni recenti: il lugubre tono dei telegiornali o, d’altro canto, la pubblicità che interferisce in ogni sfera del privato, intimità comprese. Televisione vuol dire anche abuso della “candid camera” (e qui abbiamo uno splendido esempio di vero e proprio “specchio segreto” nello show carpito a re Shahdov), vuol dire diffusione del mezzo in qualsiasi ambiente (e Chaplin si inventa un televisore da vasca da bagno con tanto di tergicristallo per disperdere i vapori), vuol dire esibire la propria identità più celata a favore di trasmissioni pseudodocumentarie o apertamente promozionali, e in cambio di notorietà e quattrini. Qui, in “Un re a New York”, il discorso televisivo si intreccia immediatamente a quello pubblicitario, e questo allo scoop giornalistico, e le tre trame finiscono con l’intessere una ragnatela ove la politica (o la negazione della politica) compie il proprio gioco: a spese degli individui, siano essi singoli o (malamente) organizzati.
Sono tutte forme di risonanza, di fragore, di inquinamento acustico, e anche su questo versante Chaplin ha da dire la sua. Non tanto in nome di un perbenismo che non ama la musica rock o le esuberanze dei giovani, come si potrebbe intendere a uno sguardo superficiale, ma in nome di una difesa del dialogo (messo in forse da tanti clamori) e della pacifica convivenza (messa in forse, per esempio, da metodi pedagogici falsamente liberatorii). Buon ultimo – ma qui il messaggio è meno vigoroso, visto l’attuale declino delle sale – il cinema, con le sue promesse di emozioni sempre più forti. Eppure i godibilissimi trailers che Chaplin ci propone non sono molto diversi dagli attuali promo televisivi.
Insomma, il “vecchio” Chaplin, come già in “Tempi moderni”, vede chiaro in un presente che preannuncia il futuro. Riesce inoltre a darci, con i parchissimi mezzi a disposizione, il senso della metropoli americana ricostruita negli studi britannici (a rovescio della Londra ricostruita a Hollywood per “Luci della ribalta”): trasparenti, teloni dipinti, effetti speciali a incastro o in sovrimpressione, materiale di repertorio (fornito dalla Pan American, si direbbe) e pochi altri “trucchi” teatrali sono sufficienti a esprimere una nozione di vero che attinge il resto dalla forza interpretativa dell’attore e dei suoi comprimari. Più di quanto si direbbe o forse si vorrebbe (in un contesto drammatico, che diventa tragico se si pensa all’analogia fra i due insegnanti incriminati e i coniugi Rosenberg, finiti per molti sospetti e poche certezze sulla sedia elettrica) affiora il “comico”. Molte esibizioni del re, lo sketch alla Stanlio e Ollio nel night club, le stesse messe in scena televisive sono pezzi di bravura cui Chaplin da tempo non ricorre. Forse, invecchiando, il “vagabondo” si è disinibito (in passato non sarebbe mai saltato addosso a una donna, nemmeno se già si fosse trattato della provocante Dawn Addams); forse ha voluto di nuovo farci capire che le corde dei sentimenti umani e delle umani reazioni sono tutte racchiuse in un unico gomitolo.
(da “I capolavori di Charlie Chaplin”, De Agostini)

Voster semper voster
50ggdaorsacchiotto

 
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