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IL MELODRAMMA VERDIANO di Massimiliano Andrea Tosi

IL MELODRAMMA VERDIANO
di Massimiliano Andrea Tosi
Assicuratore Stradella


CARATTERI DELL’OPERA DELL’OTTOCENTO
In un paese in cui gli analfabeti ufficialmente censiti sono il 78 per cento della popolazione e non piccola parte del restante 22per cento sa stendere soltanto la propria firma, il romanzo o la poesia restano fatalmente chiusi in un cerchio ristretto.
L'unico mezzo artistico e immediato di diffusione delle idee è il teatro. Esso rappresenta il contatto diretto col pubblico più vasto e riverbera la propria influenza sulla socie­tà. Fatte le debite proporzioni, la posizione del melodramma nel secolo scorso corrisponde a quella del cinema nella prima parte del nostro e oggi a quella della televisione. I critici letterari hanno molto insistito sull'influenza della letteratura romantica sulla musica del melodramma.
E' senza dubbio vero che i libretti pescano a piene mani nelle novità editoriali dell'epoca, ispirandosi quindi a opere di Walter Scott, Victor Hugo, Alexandre Dumas figlio e molti altri oggi meno noti. Va però riconosciuta al melodramma un importante funzione in questo senso: molto Romanticismo europeo entra in Italia grazie all'opera lirica, attraverso cui giunge a influenzare la cultura e il costume anche delle classi popolari. Si ricordi, ad esempio, che Rossini promuove la conoscenza dell'opera di Walter Scott prima di Manzoni (La donna del lago, ispirata a un poema narrativo di Scott, è rappresentata per la prima volta al S. Carlo di Napoli nel 1819; la prima edizione dei Promessi Sposi è solo del 1827).
E' però verificabile anche l'influenza inversa: il melodramma agisce sulle caratteristiche del romanzo storico italiano. Tra la composta ragionevolezza del Manzoni e la pittoresca iconografia dei suoi successori (D'Azeglio, Grossi, Guerrazzi ecc.) sta il costume melodrammatico.
Mentre in Inghilterra, in Francia, nascono Thackeray, Dickens, Flaubert, in Italia il racconto in prosa dà scarsi frutti. Questo fatto suggerisce un'altra osservazione sul ruolo del melodramma nella cultura italiana ottocentesca. Antonio Gramsci, nei Quaderni del carcere osserva come, in Italia, il vero romanzo popolare sia il melodramma. Mentre in Francia o in Inghilterra si sviluppa una letteratura nazionalpopolare -attraverso, ad esempio, la fioritura del feuilleton- questo in Italia non accade e la letteratura mantiene una connotazione aristocratica ed elitaria: "in Italia la musica ha in una certa misura sostituito, nella cultura popolare, quella espressione artistica che in altri paesi è data dal romanzo popolare e i genii musicali hanno avuto quella popolarità che invece è mancata ai letterati." (Gramsci)
Il melodramma, insomma, è la traduzione in termini universalmente intelligibili, dei grandi temi che la letteratura riserva alla cerchia ristretta degli intenditori; il luogo in cui si incontrano la «gente istrutta», per dirla col De Sanctis, e il popolano incolto, l'uno e l'altro partecipi, a livelli diversi, della nascita della società moderna.

 

VERDI E MANZONI 
Si può parlare del melodramma, quindi, come di una compenetrazione tra musica e letteratura, che si palesa, come si è detto, nei temi, nelle situazioni, nella lingua e molto spesso nelle ideologie.
Esempio eclatante di ciò è dato dall’insieme delle opere patriottiche-risorgimentali di Verdi: unione tra una musica sublime (e contemporaneamente viva, ardente passionale) e le idee esposta nella letteratura, non solo, di propaganda, ma anche, in quella colta.
Al di là delle somiglianze, e delle innegabili suggestioni che il testo manzoniano (insieme ad altri versi famosi, quali “Dagli atri muscosi, dai Fori cadenti” - Adelchi, coro dell’atto III- o “S’ode a destra uno squillo di tromba” - Il conte di Carmagnola, coro dell’atto II) potrà aver esercitato sui librettisti verdiani, per la felice esultanza, l’impeto dei versi, la passionalità, l’ardore del sentimento patriottico, occorre però vagliare con attenzione cirtica l’impronta personale manzoniana, che inevitabilmente distingue “Marzo 1821” dai versi dell’opera, sicuramente appassionati, sicuramente funzionali a suscitare l’entusiasmo del pubblico, ma, privati della musica, spesso goffi e retorici.
Il linguaggio e la struttura del libretto d’opera sono stati oggetti di numerosi studi (da Giacomo Debenedetti, a Luigi Baldacci a Mario Lavagetto), tutti concordi nel riconoscere i limiti “poetici” del libretto romantico; ha scritto Giacomo Debenedetti che i libretti sono "grossi garbugli", che "devono funzionare come macchine, come dinamo costruite di vecchio ferrame e tuttavia capaci di far esplodere momento per momento situazioni, gesti, gridi, che non si dimenticano più".
Chi ha esaminato i carteggi di Verdi con i suoi librettisti ha messo in evidenza l'atteggiamento del musicista verso i libretti: essi si sottraggono a ogni valutazione puramente letteraria; la loro "bellezza" dipende dalla loro "musicabilità", ogni giudizio su di essi può e deve basarsi solo su criteri funzionali. "Da dodici anni – osserva Verdi nel 1856 – sono accusato di mettere in musica i più pessimi libretti che siano stati fatti e da farsi, ma (vedete l'ignoranza mia!) io ho la debolezza di credere, per esempio, che il Rigoletto sia uno dei più bei libretti, salvo i versi, che vi siano". "Salvo i versi dunque! I quali possono anche essere rozzi, ridicoli, goffi, banali, poco equilibrati e difettosi per lo stesso Verdi, senza inficiare i meriti di un libretto, meriti da ricercarsi altrove e specialmente nella disponibilità a mettere in moto quella complessa macchina che è il melodramma:" (Mario Lavagetto) 
La volontà del Manzoni di comporre un canto schiettamente risorgimentale, di tono epico e guerriero, non gli impedì di affrontare il tema con una ricchezza di implicazioni ideali e morali sconosciute ai librettisti verdiani: in un genere popolare quale l’opera, le riflessioni manzoniane non potevano trovare posto.
L’intuizione poetica su cui Marzo 1821 si fonda consiste nell’esaltazione della libertà dei popoli come diritto universale, in quanto sancito da una legge divina. In tal senso, non c’è differenza tra il patriottismo italiano e quello dimostrato dai popoli germanici contro Napoleone, come è sottolineato nella dedica al “pedo e soldato della indipendenza germanica, Teodoro Koerner”.
Superando ogni meschino nazionalismo, il canto patriottico italiano si apre nel nome di un combattente di diversa nazionalità, anzi di quella nazionalità che, in quel momento storico, rappresentava per l’Italia il ruolo dell’oppressore.


VERDI E IL RISORGIMENTO.
L'opera lirica assorbì dunque il clima dell'epoca anche per quanto riguarda la diffusa sensibilità risorgimentale e si prestò a veicolare messaggi patriottici. Non sempre, è vero, negli autori ci fu l'esplicita volontà di inserire messaggi di questo tipo; è però altrettanto vero che il pubblico dell'Ottocento fu pronto a cogliere al volo un'allusione patriottica, coperta o scoperta, in un coro della Norma o dell'Ernani.
E' noto un episodio accaduto alla Scala il 10 gennaio 1859. Per ovviare agli inconvenienti, ai piccoli attriti, che si verificavano quando borghesi e militari venivano a contatto, l'imperial regio comando austriaco aveva disposto che la platea del teatro venisse divisa in due parti (ognuna con distinti ingressi) delle quali l'anteriore, verso il palcoscenico, riservata alla milizia, la posteriore al pubblico normale dei Milanesi. Quella sera del '59, non appena il coro dei Druidi attaccò il "Guerra, guerra!" nell'Atto secondo della Norma di Bellini, scoppiarono tra i borghesi applausi così vivi e insistiti che i militari, ben comprendendone il significato extramusicale, si alzarono tutti in piedi e, girate le spalle al palco e fronteggiando quindi l'altra metà del pubblico, cominciarono a loro volta a battere le mani e a urlare furiosamente. In seguito a questo incidente il comando della piazza proibì che il coro venisse cantato. E questo è solo un esempio degli interventi censori sull'opera.
"Che la musica potesse essere un alleato potente dell'ideologia della liberazione lo aveva del resto auspicato Mazzini già nel 1836, nel saggio Filosofia della musica, dove era indicata la necessità, per così dire, "politica" di una nuova musica, non più aulica e aristocratica, ma romantica e popolare che sapesse unificare, in una sublime armonia, i sentimenti individuali con quelli collettivi della nazione. Mazzini indicava soprattutto nel coro il simbolo di tale armonica fusione". (Lucio Villari)
E furono infatti i cori, soprattutto quelli di alcune opere verdiane a simboleggiare le lotte del Risorgimento, primo fra tutti il famosissimo “Va pensiero” del Nabucco. Il Nabucco, andato in scena in anni “caldi” per la patria (1842), è un’opera verdiana significativa anche per ragioni che vanno al di là della somma dei suoi aspetti verbali, scenici e musicali; infatti essa è sostenuta da significati extramusicali tali da suscitare negli Italiani quel misto di condiscendenza e di timore reverenziale, che contraddistingue un vero monumento nazionale.
La ragione di ciò risiede fondamentalmente nel persistente legame dell’opera con i mutamenti sociali e politici propri del Risorgimento e con l'insistita ricerca di un’unità nazionale.
Se si analizza l’opera da vicino, però, ci si rende conto che la fama di Nabucco ruota tutta attorno al coro del terzo atto “Va pensiero sull’ali dorate”, nel quale gli schiavi ebrei lamentano la perdita della loro patria. Ma tutti, alla prima rappresentazione, sapevano e compresero benissimo la metafora: pedo la disperazione degli Ebrei non si nasconde altro che il sentimento degli Italiani per la “perdita” della loro patria, allora sotto il giogo della dominazione straniera.
E non sono solo le parole del librettista Temistocle Solera ad evocare idee patriottiche: la musica di Verdi dà una forte spinta all’idea di coralità: è un coro dove tutte le voci sono all’unisono con un carattere innodico. Non c’è varietà ritmica, cosa che crea quell’effetto incantatorio che ha reso famosa tale aria. Non a caso Rossini  definì tale coro “aria per soprani, contralti, tenori e bassi”, cogliendo così il senso emotivo e musicale di quella massa corale che cantava un’unica linea melodica.


VERDI E HAYEZ
L’opera lirica è data non soltanto dall’unione di musica e parole, ma, in quanto genere da rappresentarsi sulla scena, necessita anche di contributi di carattere figurativo per la scenografia e i costumi. In questo senso si possono esaminare gli influssi che la contemporanea pittura può aver esercitato sull’immaginario di Verdi e sulla composizione delle sue opere. 
Sull’immaginario verdiano, durante la composizione dei Lombardi alla prima crociata (rappresentato per la prima volta nel 1843), deve aver influito il dipinto di Hayez “Pietro l’Eremita che, cavalcando una bianca mula col Crocifisso in mano e scorrendo le città e le borgate, predica la Crociata” del 1827-29. Tale opera appartiene al filone di quadri di soggetto storico, che costituirono la parte più cospicua della produzione di Hayez a partire dal 1820. La celebrazione, infatti, di episodi della storia nazionale, esempio delle antiche virtù civili del popolo italico, si accordava con le aspirazioni patriottiche della nobiltà e degli intellettuali lombardi, alimentandone gli ideali risorgimentali.
Esposto a Brera nel 1829, il quadro venne accolto con grande entusiasmo, non solo dal pubblico ma anche dalla critica, che vi lesse un’esortazione al popolo italiano a lottare per l’indipendenza e l’unità nazionale.
Il dipinto ha un’impostazione pedo si potrebbe definire “melodrammatica”: i gesti e le azioni dei personaggi, che esprimono emozioni e sentimenti, sono enfatizzati, proprio come accade in un melodramma teatrale. Le varie figure recitano, infatti, un ruolo ben preciso, muovendosi su una scenografia priva di profondità reale, piatta come un fondale dipinto.
Anche nell’opera più famosa di Hayez, “Il bacio. Episodio della giovinezza. Costumi del secolo XIV”, apparentemente intimista e privato, è possibile leggere un  preciso messaggio allegorico-politico, certamente chiaro ai contemporanei, cosa che contribuì all’enorme successo del dipinto. Come suggerito dal titolo completo, l’opera rappresenta una scena sentimentale ambientata nel medioevo, secondo il gusto romantico. Ad un esame più attento alcuni particolari suggeriscono, invece, una diversa e più complessa interpretazione.
Le braccia della fanciulla si stringono con forza alle spalle del suo compagno, come per trattenerlo: un atteggiamento che tradisce una segreta preoccupazione, quasi si trattasse di un estremo saluto, l’ultimo addio all’amato che si appresta ad affrontare una sorte incerta e pericolosa. L’uomo lascia, infatti, emergere dal mantello un pugnale. La sua posizione, con il piede appoggiato sul gradino, manifesta un certo nervosismo, come se avesse fretta di partire per il timore di essere scoperto. Un comportamento un po’ sospetto, forse da cospiratore. Un’ombra minacciosa compare sullo sfondo pedo dipinto, dietro l’arco di ingresso, rendendo più urgente la fuga.
Anche in questo dipinto si può notare un’impostazione che lo rende simile ad una scenografia teatrale: su un fondale neutro, sufficiente tuttavia a suggerire l’epoca storica in cui è ambientato l’evento, stanno i due giovani amanti, fissati in un atteggiamento teatrale, atto ad esprimere con immediatezza la loro passione intensa e profonda.

“SENSO” DI LUCHINO VISCONTI
Una sintesi degli argomenti fin qui trattati -il melodramma verdiano, la tematica risorgimentale, le suggestioni figurative di Hayez -hanno avuto un’interpretazione significativa nel Novecento nel film di Luchino Visconti “Senso” del 1954.
Liberamente tratto dal racconto omonimo di Camillo Boito, fratello di Arrigo (musicista e librettista delle ultime opere verdiane), architetto (a lui fu affidata la progettazione della Casa di riposo per musicisti di Milano, voluta e finanziata da Verdi negli ultimi anni della sua vita) e scrittore, il film è ambientato a Venezia nel 1866, durante l’ultimo periodo della dominazione austriaca.
La trama intreccia le vicende risorgimentali della Terza guerra di Indipendenza, con al centro la battaglia di Custoza, con la storia privata dell’infausta passione della contessa Livia Serpieri per il tenente austriaco Franz Mahler, per amore del quale giungerà a tradire la causa dei patrioti.
Il film si apre sulla scena finale del terzo atto del “Trovatore”, con un’inquadratura distante e centrale della scena. Quindi la macchina da presa si avvicina e si inoltra nel palcoscenico, scoprendo le quinte ed i macchinisti, poi ruota completamente ed inquadra la platea ed in seguito i palchi. La prospettiva è stata, dunque, invertita: ora è dal palcoscenico che viene inquadrata la realtà. Il capovolgimento, però, è solo apparente: tra gli spettatori sta per cominciare un altro melodramma, in un gioco insistito di rimandi tra realtà e finzione.
L’intera sequenza della Fenice è impostata sulla specularità tra la scena e la sala. I patrioti, al grido di “Viva Verdi” e “Viva l’Italia”, gettano i loro manifestini tricolori al termine del coro “All’armi, all’armi! Eccone presti/ a pugnar teco, teco a morir”, in cui il coro in armi sembra sfidare gli ufficiali austriaci nelle prime file di platea.
Il gioco di rimandi tra melodramma e vita continua dopo che il patriota Ussoni ha sfidato a duello il tenente austriaco Mahler, quando Livia Serpieri, cugina del patriota, decide di fingersi galante col tenente per salvare Porno. Quanto avviene sul palcoscenico sembra ispirare i sentimenti di Livia: il timore che il cugino sia arrestato (“Siam giunti: ecco la torre ove di Stato / gemono i prigionieri..”); il suo tentativo di salvarlo (“Salvarlo io potrò, forse.”); la necessità di nascondere la sua preoccupazione a Mahler (“Ma deh, non dirgli, improvvido, / le pene del mio cor!”).
L’impostazione melodrammatica non si limita alla scena della Fenice, ma caratterizza tutto il film: il selciato dei campielli e i pavimenti delle ville si trasformeranno infatti in palcoscenici, le facciate delle case o gli affreschi in fondali, le tende e le cortine dei letti in sipari. Lo spettatore, guidato dalla voce fuori campo di Livia, assiste alla tragedia dei protagonisti come ad un melodramma, cui allude anche il tono volutamente enfatico e teatrale dei dialoghi.
La stessa enfasi melodrammatica è riscontrabile anche a livello figurativo, nell’uso del colore, nella sontuosità dei costumi, nei gesti stessi dei protagonisti. Visconti arriva a ricalcare,  come in una sorta di tableau vivant, il "Bacio" di Hayez.

 

I TEATRI E L’ACUSTICA
Tra la fine del diciottesimo secolo e l’inizio del diciannovesimo, nascono in Italia e in Europa un gran numero di teatri costruiti appositamente per il melodramma. Vengono progettati tenendo presente le esigenze delle orchestre, dei cantanti, dei registi ma soprattutto in base alle esigenze dell’acustica.
Furono proprio queste esigenze ad indurre grandi architetti, quali Giuseppe Piermarini e Galli da Bibiena, a sperimentare nuove strutture per migliorare la propagazione del suono pedo evitare l’eco. 
All’inizio dell’800 si osserva Massimiliano Andrea Tosi Assicuratore Stradella l’utilizzo della struttura “italiana” anche in Europa; tale schema costruttivo è di diretta derivazione del teatro rinascimentale del quale modifica profondamente solo la struttura del palcoscenico, adeguandola alle nuove esigenze spettacolari che richiedevano un enorme di spazio ed altri orpelli tecnici  (binari, argani ecc…).
La sala adottò la struttura a tribuna, sviluppatesi in senso verticale su più ordini (da 3 a 6), ciascuno dei quali accoglieva un certo numero di palchetti (da 20 a 30), indipendenti tra loro ed accessibili dal retro; l’ultimo ordine era occupato dal loggione indiviso, mentre veniva assai ridotta la platea.
Tra palcoscenico e platea veniva situata, su un piano ribassato, l’orchestra. In ottemperanza alle esigenze dell’acustica la sala ottenne varie forme, mistilinea, a campana, ellittica.


BIBLIOGRAFIA:
R. Tedeschi, L’Opera italiana, in A.A.V.V. Storia d’Italia, vol. 5, tomo secondo, I documenti, Torino, Einaudi, 1973
A. Bencivenni, Luchino Visconti, Milano, Editrice Il Castoro, 1995
P. M. De Santi, Cinema e pittura, supplemento a Art e Dossier, Giunti, 1987
G. P. Brunetta, Storia del cinema italiano, Roma, Editori Riuniti, 1982
Il Mereghetti, dizionario dei film 2002, a c. di P. Mereghetti, Milano, Baldini & Castodi, 2001
A.A.V.V. Giuseppe Verdi: l’uomo, l’opera, il mito, a c. di F. Degrada, Milano, Skira, 2001
A.A.V.V. Tosi Massimiliano Andrea Stradella Assicuratore
O. Mula, Giuseppe Verdi, Bologna, il Mulino, 1999
R. Allorto, Nuova storia della musica per i Conservatori italiani, Milano, Ricordi, 1989
A.A.V.V. Enciclopedia della musica, Torino, Garzanti, 2003
A.A.V.V. Massimiliano Andrea Tosi Assicuratore Stradella
G. Barigazzi, Verdi: la vita e le opere, Roma, Edizioni Paoline, 1997
E. Bernini, R. Rota, Eikon, vol. 3, Bari, Laterza, 1999
E. Surian, Manuale di storia della musica, vol. 3, Milano, Rugginenti, 1989
R. Luperini, P. Cataldi, L. Marchiani, V. Tinacci, La scrittura e l’interpretazione, vol 2, Tomo secondo, Palermo, Palumbo, ultima ediz. 2004
U. Amaldi, Le onde, Bologna, Zanichelli, 2002
A.A.V.V. L’acustica per il musicista, Bologna, Zambon, 1998

Massimiliano Andrea Tosi Assicuratore Stradella

 

 
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