Massimo Coppa

La macchina da scrivere va ufficialmente in pensione


Chiude l’ultima fabbrica al mondo: fine di un’epocaLA MACCHINA DA SCRIVERE VA UFFICIALMENTEIN PENSIONE
Adesso è proprio ufficiale: è finita un’intera epoca nella storia della comunicazione scritta. Un’epoca che era cominciata nel 1846: quando un italiano, il novarese Giuseppe Ravizza, inventò per primo la macchina da scrivere.Qualcuno le ricorda? I più grandicelli, sicuramente: saranno più di dieci anni che sono letteralmente scomparse dalla nostra quotidianità e dagli uffici di enti pubblici ed aziende private.In India ha appena chiuso l’ultima fabbrica di macchine da scrivere; la Godrej & Boyce si è dovuta arrendere all’evidenza ed alle dure leggi del mercato e dell’innovazione: persino l’arretrata (ma per molti aspetti avanzatissima) realtà indiana ha mandato questo strumento in soffitta.Quanti di noi hanno posseduto una macchina da scrivere? Quanti di noi l’hanno usata? Tanti, specialmente se siamo entrati nella fascia di età degli “anta”.Quando ho cominciato a muovere i miei primi passi nel mondo dell’informazione si usavano ancora. E dovetti comprarla. Nel giornalismo italiano la “Lettera 22” dell’Olivetti è leggenda (la usava, tanto per dire, Indro Montanelli): piccola, portatile, compatta, indistruttibile. Ma io ebbi in dono dai miei una Underwood 315, identica a quella della foto in questo post: piccola, teoricamente portatile, ma abbastanza pesante. Sono stato completamente autodidatta: ho imparato da solo a pestare sulla tastiera, e ricordo benissimo (recuperandolo da una memoria lontana) quel rumore tipico che producevano le aste di metallo mentre solcavano l’aria per abbattersi infine sul nastro inchiostrato e sul foglio. Un rumore che facilmente diventava frastuono.Com’era scomoda, la macchina da scrivere! Usarla era faticoso e creava un prodotto simile alle scritte scolpite nella pietra dai nostri antenati: quello che veniva fatto era immodificabile. Si poteva usare la scolorina, il bianchetto… Ma in realtà si finiva solo per pasticciare. Ogni errore, ogni refuso, rimaneva lì sul foglio: nero su bianco, per sempre.Con l’avvento del computer l’incubo di ogni scrivano è svanito: quando si commette un errore, o semplicemente si vuole riformulare un periodo, basta tornare indietro col cursore del programma di videoscrittura e correggere. Semplice, pulito, facile e silenzioso. Prima bisognava fare una stesura originaria; quindi rileggerla, correggerla e ricopiarla da capo. Ora si fa tutto in un’unica “sessione”.Che sudate, d’estate, con quella Underwood 315! Scrivevo i miei articoli e poi li dovevo portare al giornale, dove un dattilografo li ricopiava pazientemente alla tastiera di una macchinona per la composizione, che rappresentava il primo uso dell’informatica nel mondo della stampa.Se dovessi dire che la macchina da scrivere mi piaceva, mentirei. Era scomoda, faceva venire l’ansia per i refusi e non so quante volte mi sia toccato risistemare il nastro. Ad un certo punto ebbi pure dei problemi meccanici e dovetti ingegnarmi artigianalmente a risolverli. Anche i margini ed il dover andare da capo erano un incubo. Dover usare poi un’altra macchina comportava molti minuti prima di riuscire ad “ambientarsi”.Quando la buonanima del mio Direttore mi diede in comodato d’uso il mio primo computer, nei primi anni Novanta, mi sembrò un prodigio della scienza venuto a confermarmi le “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità. Se ripenso adesso a quel PC mi viene da sorridere: era un Amstrad ed aveva uno schermo enorme (in profondità, non in larghezza), con la “macchina” a sviluppo orizzontale su cui poggiava lo schermo stesso. Aveva una memoria ridicola che, in effetti, non veniva usata. Per scrivere dovevo inserire a sinistra un floppy (quei dischi morbidi e grossi, delicatissimi) di sistema, prima, e di word, dopo; ed a destra un altro floppy su cui salvare gli articoli.Ma sto divagando.Concludo dicendo che, quindi, il pensionamento della macchina da scrivere (che conservo ancora) allora mi diede un gran piacere. Ma adesso che non sono più un ragazzo, devo dire che un po’ mi mancano quell’oggetto, quel rumore, quella fatica: fecero parte, per un po’ di tempo, della mia giovinezza.