Massimo Coppa

Quel Vietnam che resta dentro


La morte del regista Cimino ed il suo capolavoro,“Il cacciatore”QUEL VIETNAM CHE RESTA DENTRO  La morte del regista Michael Cimino mi dà l’occasione di parlare di un argomento che mi ha appassionato per un lungo periodo della mia vita: la guerra del Vietnam e, soprattutto, i suoi risvolti nella società americana ed occidentale in generale.Tutto cominciò nel 1986: avevo 17 anni e vidi al cinema “Platoon”, di Oliver Stone. Conoscevo già la storia della guerra in Vietnam, perché dall’età di 15 anni leggevo ogni giorno tre quotidiani (che mi passava il mio vicino di casa, un medico che divenne anche sindaco del mio paese) e fu così che presi per la politica, la storia contemporanea ed il giornalismo un interesse che in pratica non avrei più abbandonato.Passai quindi ai libri, ed i Berretti Verdi, i vietcong, la Air Cavalry, John Kennedy, Lyndon Johnson, Ho Chi Minh, Saigon, Dien Bien Phu, My Lai, Khe Sanh, l’offensiva del Tet ed i Pentagon Papers divennero personaggi, città, luoghi e fatti a me familiari e vicini, benché già ai miei tempi fossero ormai lontani nel tempo, oltre che nello spazio.Ma il cinema ha la forza dell’epica e del mito: ti fa capire, su di un argomento, tutti i suoi aspetti più profondamente, più in fretta e con una suggestione che non ti danno neanche lunghi anni di studio e chilometri di pagine su quella materia.Cominciai così a procurarmi la filmografia di genere. A parte “Platoon” ed il primo “Rambo” (che è un film molto più profondo e problematico di quello che sembrerebbe), furono altre due le opere – più datate – che mi colpirono di più: “Apocalypse now” e “Il cacciatore”. Due capolavori degli anni Settanta del Novecento, quando anche il cinema, finalmente, si occupò di un conflitto che era terminato nel 1975; terminato sul terreno, ma non nei cuori.“Il cacciatore” di Cimmino (“The deer hunter” nel titolo originale) è quello che, in definitiva, mi è rimasto dentro. Non posso guardarlo senza, ad un certo punto, rimanere profondamente turbato fino alla commozione. Ti dà tutta la misura dell’assurdità della guerra, della profondità di una tragedia che fu anche quella dei reduci.Prova maiuscola dei protagonisti (i principali erano Robert De Niro e Meryl Streep) ed indimenticabile la colonna sonora firmata da Stanley Myers: credo che sia una delle musiche da film più famose nella storia.C’è tutto il dramma di un uomo che ha guardato in faccia l’inferno e che lo porterà per sempre con sé. Un uomo che, però, non perde la tenerezza, nemmeno quando va a caccia di cervi: spara solo un colpo ad ogni esemplare. Perché, se lo manca, è giusto che anche l’animale debba avere un’altra possibilità: quella che sembrerebbe avere avuto lui, nella vita, anche se in realtà non è così. Io sono contro la caccia, ma non posso fare a meno di ammirare un codice etico così onorevole.La cosa che fa rabbia è che, se ci pensiamo bene, dalla seconda guerra mondiale in poi ogni generazione di americani ha avuto la sua guerra: Vietnam, Afghanistan, le due guerre in Iraq e varie campagne in mezzo.Erano necessarie? La maggior parte di esse, no.