Massimo Coppa

Le Regioni fanno 50 anni: anniversario triste di un’istituzione fallimentare


 LE REGIONI FANNO 50 ANNI: ANNIVERSARIO TRISTEDI UN’ISTITUZIONE FALLIMENTARE
Nell’indifferenza generale sta trascorrendo un anniversario che dovrebbe avere una certa importanza per il nostro Paese: la nascita delle Regioni, intesa come istituzioni operative. Prevista in Costituzione, si dovette arrivare addirittura al 1970 per l’elezione dei primi consigli regionali. Da allora ne è passata, di acqua sotto i ponti, ed oggi le Regioni italiane sono una realtà. Anche troppo. Qualche post addietro, e riferendomi alla babele di provvedimenti normativi locali per contenere la diffusione del Coronavirus, mi sono lamentato della giungla che ha caratterizzato la gestione dell’emergenza. Il governo fissava una cornice, ma le Regioni decidevano cosa metterci esattamente dentro. Avevo davanti agli occhi il caso della Campania, la mia Regione di appartenenza, dove il presidente-sceriffo De Luca ha varato le misure più restrittive d’Italia, ben al di là di quanto previsto dal governo Conte. Credevo che non fosse possibile che un ente locale “comandasse” più del governo, ma mi sono dovuto ricredere ampiamente. Tutto nasce dalla dannata riforma del Titolo V della Costituzione approvata dal centrosinistra nel 2001 e confermata, incredibilmente, dal popolo italiano in un referendum. Andò a votare solo il 34 % degli elettori ma, non essendo richiesto un quorum, fu sufficiente. E così oggi ci troviamo davanti ad un guazzabuglio che istiga le Regioni all’anarchia. La Corte Costituzionale ormai dedica strutturalmente gran parte del suo operato a dirimere i conflitti che sorgono fra questi enti e lo Stato. I presidenti di Regione si fanno chiamare “governatori” e pensano di essere a capo di un vero e proprio Stato all’interno di uno Stato federale; pensano davvero di essere a capo della California nell’ambito degli Stati Uniti, per capirci. Nessuno ha spiegato loro, né l’hanno studiato all’università, o più semplicemente fanno finta di non saperlo, che l’Italia non è uno Stato federale e che loro non hanno chissà quali poteri. Fanno finta di averli, e li esercitano, nell’olimpica indifferenza del governo. Il risultato è l’ennesima falla nella certezza del diritto, con il cittadino a subire provvedimenti capotici senza sapere quanto e come vi si possa opporre. Il bilancio di questi cinquant’anni di regionalismo è, dunque, deludente ed ampiamente deficitario. Il governo centralizzato, in sé, è un’idea triste e pericolosa, perché facilmente incline all’autoritarismo. Per questo il decentramento e l’autonomia sono principi chiave in una democrazia moderna, compiuta; sono architravi dell’edificio delle libertà. Ma in Italia ce la meritiamo l’applicazione di questi principi? Abbiamo dimostrato di saperli esercitare? No. L’accresciuto potere delle Regioni si è tramutato in un’impennata delle spese e, quindi, del debito pubblico locale, che poi deve essere tamponato con l’applicazione di tasse, anch’esse locali. La classe politica presente sul territorio ha dimostrato, dovunque, di essere di gran lunga peggiore di quella nazionale: senza alcun ideale, pensa solo al ritorno immediato in immagine e voti; pensa solo all’occupazione clientelare di tutti i posti disponibili ed alla soddisfazione dei propri bisogni. Gli abusi e gli sprechi sono all’ordine del giorno, e gli esempi peggiori vengono dalle Regioni a Statuto speciale: uno status concessogli per motivi validissimi, ma che storicamente oggi non avrebbe più ragion d’essere, se non quella di autoperpetuare il potere della classe dirigente. I cinquant’anni dal varo delle Regioni, dunque, casomai venisse celebrato, dovrebbe essere l’occasione per avviare una profonda riflessione sulla situazione e per mettere in cantiere una riforma incisiva che sottragga potere a questi enti locali, specialmente in settori vitali come la sanità. Insomma, a mio parere le Regioni devono essere depotenziate, e pesantemente. È malinconico, ma la prova storica dei fatti non è stata superata: bisogna rinforzare nuovamente il potere centrale, perché si è dimostrato che l’autonomia non ce la meritiamo.