La riscossa del Sud

UN CANTO AI NOSTRI EROI


… Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti!”. Per tanto tempo siamo stati costretti ad imparare a memoria questa patetica poesiola di un poeta del risorgimento, un certo Luigi Mercantini, che nulla ha di risonanza poetica, se non la fortuna di essere dalla parte dei vincitori. Si mette sulla bocca di un’umile donna, la spigolatrice di Sapri, l’elogio a questi “uomini eccezionali”, che capeggiati da Carlo Pisacane, tentarono con una piratesca azione, di sobillare il popolo contro la legittima istituzione. Chissà perché, poi, fu proprio il popolo, i semplici contadini cilentani, a opporsi a questa “rivoluzione”, e fermarono i “trecento” con mazze e forconi.Certo la storiografia ufficiale del nuovo “Stato”, ha enfatizzato ed esaltato queste gesta di presunti “eroi”, e non sono mancati nelle celebrazioni centocinquantenarie la rappresentazione storica di queste piraterie risorgimentali.Ma chi era Pisacane? E chi i suoi trecento “eroi”? Ormai la verità della storia viene fuori. E nonostante ancora ci sono i retorici “nostalgici” dell’epica risorgimentalista, tra cui alcuni che siedono anche sugli alti scanni della politica statale, che vogliono nascondere la verità esaltando i miti del risorgimento, la verità continua ad entrare nel cuore di molti, anche tra le nuove generazioni, e la storia si riscrive attraverso fatti concreti e studi reali.Ormai è risaputo che il “famoso” Carlo Pisacane, a differenza del fratello Filippo, tenente degli Ussari, che restò fedele al suo Re fino all’ultimo, era un disertore, persona inquieta e adultera, ateo convinto e nemico della religione, fu traditore della sua Patria Napoletana. Conquistato dalle idee massoniche e anticlericali di Mazzini, fu “usato” da quest’ultimo (anch’egli annoverato tra i mitici padri di questa nuova Italia) per tentare questa “sortita” pseudo patriottica. Egli con 26 uomini partì da Genova con una nave a vapore: “all’isola di Ponza si è fermata, è stata un poco poi è ritornata”. Qui a Ponza il Pisacane e i suoi uomini, aiutati dalla sorpresa e dall’immediatezza della loro azione filabustiera, attraverso uno stratagemma, riuscirono ad entrare nel porto e a prendere in ostaggio gli ufficiali e alcuni soldati, e subito liberarono 323 galeotti comuni che si trovavano nella locale colonia penale. Erano assassini, ladri, violenti, che avevano vessato le popolazioni del Cilento. Alla sorpresa, che aveva messo nelle mani dei “pirati tricoloristi” l’isola e alcuni ostaggi, subito ci fu una reazione degli altri soldati, che fu repressa nel sangue e nella violenza, da quegli uomini avvezzi all’omicidio. Fu imprigionata l’intera guarnigione, oltre i tanti massacrati.A Ponza il Pisacane, con il suo braccio destro, Giovanni Nicotera, si impossessarono della cassa comunale e di diverso oro, che fu poi trovato in loro possesso. Certo non furono da meno di Garibaldi e dei suoi “sgherri”, e del “re galantuomo”, che solo pochi anni dopo depredarono il banco di Sicilia e il banco di Napoli, e saccheggiarono l’intero Regno delle Due Sicilie. Il Nicotera, che fu poi ministro degli interni del nuovo stato unitario, possiamo ritenerlo precursore dei politici del futuro.Non trovando aiuto da parte della popolazione Ponzese, furono poi liberati altri 1800 delinquenti comuni, i quali misero a ferro e fuoco parte dell’isola, con violenze, furti, omicidi. Fu anche bruciata, spinti da Nicotera e Falcone, l’antica biblioteca dei monaci cistercensi. ( Il metodo fu lo stesso di quei “patrioti” garibaldini e piemontesi, che vennero a “liberare” il Regno delle Due Sicilie qualche anno dopo, a suon di violenza, furti, stupri,depredazioni e omicidi).Ma un coraggioso prete Ponzese, che la storia ha dimenticato, Don Giuseppe Vitiello, organizzò la resistenza degli isolani, creando una vera e propria linea difensiva a metà isola, raggruppando gendarmi e civili, impedendo così che il Pisacane ed i detenuti del bagno penale ormai liberi dilagassero su tutto il territorio isolano causando ben maggiori danni. Subito Don Giuseppe, organizzò un equipaggio che, con una lancia forte di 8 remi comandata da Ignazio Vitiello, partì alla volta di Gaeta per dare l’allarme e chiedere aiuto.Fallita quindi la rivolta popolare sperata, il Pisacane si preoccupò di reclutare tra i relegati stessi quanta più gente possibile per lo scopo primario della sua missione: lo sbarco a Sapri. Ma anche questa volta la sua delusione fu tanta. Oltre alla diserzione dei Ponzesi, di quelle migliaia di detenuti solo pochi si fecero avanti, e nei volti di quei pochi si leggeva l’unico e vero obiettivo: raggiungere il continente per darsela a gambe.Quindi questi “esemplari patrioti”, con circa 300 dei “banditi” liberati, partirono alla volta di Sapri, per iniziare la conquista del “Sud”. Ma proprio a Sapri e nei paesi vicini essi furono fermati dalla popolazione, che non aderì alla sommossa ribelle. Furono proprio le popolazioni civili che fermarono l’avanzarsi di questo gruppo di “pirati”. Pisacane e la maggior parte dei suoi uomini morirono, mentre Nicotera e qualche altro furono presi e incarcerati. Seppure condannati a morte, furono poi graziati da Ferdinando II. Certamente il re Savoia, amante della forca, non avrebbe usato tanta delicatezza nei loro confronti.Il racconto di questi fatti in questa giornata particolare, 2 novembre, commemorazione dei defunti, non vuole essere motivo di recriminazioni o rimpianti, e neppure ricerca di rancore e vendetta, perché dinanzi alla morte c’è solo la compassione e il perdono. Motivazione è solamente la ricerca della verità e della giustizia. Non si può costruire nulla di buono sui falsi miti e sulle menzogne, perché la verità solamente ci rende liberi e ci fa crescere. Purtroppo questa verità per anni è stata nascosta, e tutt’ora nessun libro di scuola parla di questi “altri eroi”, che appartengono alla storia del Sud, che per un ideale e forti della loro fede hanno combattuto per la libertà della loro terra e della propria gente. Ho voluto raccontare per poter ricordare questa gente, che realmente dobbiamo considerare eroi, e che la storiografia ufficiale, volutamente, ha messo nel dimenticatoio. Sono i nostri eroi delle Due Sicilie, soldati, civili, preti, popolani, contadini, nobili, uomini e donne, che, dopo l’ingiusta occupazione, l’infame guerra e il falso plebiscita del 1860-1861, hanno voluto continuare a difendere l’onore e la libertà della propria Patria, la fedeltà al proprio Re, la dignità del proprio popolo, la sicurezza delle proprie famiglie, la loro fede e le loro tradizioni. Sarà un motivo di ringraziamento a questi “eroi sconosciuti”, una preghiera ed un fiore per loro, morti senza memoria e senza tomba. Allo stesso tempo la pietà cristiana non ci esimia di fare una preghiera anche per gli altri morti, seppure di parte avversa.Un primo pensiero va realmente “ai trecento giovani e forti” soldati napoletani, che il 2 novembre 1860 si fecero letteralmente uccidere, incominciando dal capitano Domenico Bozzelli, eroe abruzzese di Castel di Sangro, fino all’ultimo tamburino, al ponte “Real Ferdinando” , per rallentare l’avanzata di Cialdini e delle forze piemontesi, e consentire alle truppe napoletane di raggiungere la fortezza di Gaeta e il loro Re, per l’estrema difesa della secolare autonomia dello Stato fondato da Ruggero d’Altavilla, a Palermo, nel 1130. Erano campani, siciliani, di terra di lavoro, calabresi, pugliesi, molisani, abruzzesi, lucani, figli della nostra terra, il nostro sangue, la nostra carne.Insieme non possiamo dimenticare gli eroi che difesero la Patria in Sicilia, sul Garigliano, a Gaeta, a Civitella del Tronto, a Messina. I giovani allievi della “Nunziatella”, che si misero in viaggio, rifiutando ogni compromesso e ogni vantaggio, per raggiungere Re Francesco e lottare con lui e per lui contro l’usurpatore piemontese, fino alla morte, per non venir meno al loro giuramento di fedeltà. Le inaudite sofferenze e il silenzioso sacrificio di migliaia di soldati “napolitani” che, dopo la capitolazione di Gaeta, Civitella del Tronto e Messina, furono deportati nel Nord Italia, al campo San Maurizio o nella fortezza-lager di Fenestrelle. Furono sottoposti a sevizie, affamati e infreddoliti, morirono, e “gettati” nel silenzio della storia, furono bruciati nella calce viva. Un pensiero agli uccisi civili, donne e uomini, vecchi e bambini, giovani e preti, alle fanciulle stuprate, a Pontelandolfo, Casalduni, Auletta, e nei tanti paesi bruciati e distrutti dall’odio del conquistatore, agli operai di Pietrarsa massacrati. A quegli uomini e a quelle donne che furono chiamati “briganti”, e che con coraggio lottarono oltre dieci anni per la propria indipendenza. Mentre ai “falsi eroi” del risorgimento sono stati costruiti monumenti, sono state dedicate targhe e vie, questi nostri “fratelli meridionali” sono stati calpestati e dimenticati. Per quelli sono stati scritti libri, poesie, favole, per i nostri soldati e i nostri tamburini coraggiosi, nessuno ha scritto. Noi dobbiamo, con la nostra identità e il nostro impegno, dare loro un nome e costruire per essi un monumento.Un pensiero va anche agli altri morti “meridionali”, di ieri e di oggi, morti senza un perché, uccisi da guerre che non gli appartenevano, uccisi dalla mafia e dalla camorra, uccisi dalle ingiustizie e dalla disoccupazione, uccisi da uno “stato tiranno”.Qualcuno potrà dire che questo non è vero, alcuni lo dicono anche per i morti di Auschwitz. Dimostrate con i fatti che la storia non è andata così, perché i documenti ci sono e parlano chiaro. Qualcuno potrà dire che è inutile ricordare, perché il “passato è passato”, e non si può vivere sui rimpianti. La verità e la giustizia non sono rimpianti, perché i mali della nostra gente, le ingiustizie sociali, l’immondizia, la mafia e camorra, la disoccupazione, il divario economico, che ancora oggi affossano il Sud, trova la sua origine in questo passato. Senza la memoria non ci potrà essere il riscatto.Si potrà dire che il “bene” dell’unità nazionale vale più dei morti e più delle ingiustizie ricevute. Ma chi può stabilire cosa è meglio per un popolo? Si controbatte che i morti non sono un milione, ma forse meno della metà. Ma se anche ci fossero stati solamente cento morti, nessuno ha diritto a togliere la vita ad un uomo per impossessarsi della sua terra. Ci potranno dire che eravamo poveri e che i nostri primati sono fantasie, anche se i fatti dicono il contrario. Ma se anche fosse così, a noi poteva anche stare bene di essere poveri, ma felici della propria identità e della propria autonomia. Il proverbio dice “pane e cipolla, ma cuore contento”. Intanto le casse del Sud nel 1860 erano piene di ducati, oggi sono piene di buchi.La storiografia e la letteratura ufficiale è ricca di poesie e libri inneggianti ai vincitori, ma grazie alla tenacia e alla volontà di uomini e donne del Sud, liberi e forti, sta nascendo un’altra storia e letteratura, altre poesie e altri canti, che si propongono di “raccontare” la Verità e di dare onore ai vinti. Anche io, povero ed umile improvvisato poeta, ho scritto un canto per i nostri eroi, perché amo la mia terra e il mio popolo, e per essi non mi terrò in silenzio.