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La fontana dell'Elefante, sita in Piazza Duomo a Catania, fu realizzata tra il 1735 e il 1737 dal Vaccarini, l'architetto palermitano autore della ricostruzione post 1693. Il sisma aveva danneggiato pesantemente l'elefante (vedi foto) che allora si trovava sul vecchio Palazzo di Città, dove era stato collocato, nel 1508, per volere di Ferdinando II d'Aragona, vicerè di Sicilia dal 1479 al 1516.Il blocco pressoché monolito, restaurato dallo stesso Vaccarini e sormontato da un obelisco ottaèdro di granito di Syene, fu poggiato su uno stilobate di marmo sistemato al centro di una vasca. Il manufatto, realizzato secondo il geografo arabo Idrisi all'epoca della dominazione cartaginese (IV secolo a.C.), ricorda le sculture protostoriche in basalto nero di Tell Halaf, nel nord della Siria.Le zanne sono di marmo, come la gualdrappa, ricadente ai fianchi e segnata dalla lettera 'A', l'iniziale di Atena, la dea della Sapienza identificata a Roma con Minerva. Il Vaccarini, formatosi a Roma sulle opere dei maggiori artisti del tempo, di sicuro non ignorava l'elefante obeliscoforo della Minerva, progettato nel 1666 dal Bernini con la consulenza dell'egittologo nonché gesuita Athanasius Kircher, e modellato nel marmo da Ercole Ferrata.L'iconografia dell'elefante sormontato da un obelisco risale in ogni caso alla 'Hypnerotomachia Poliphili', un romanzo allegorico, pubblicato a Venezia nel 1499 da Aldo Manuzio con un corredo di 172 xilografie, che Alessandro VII, papa dal 1655 e committente dell'opera, conosceva bene. Tema centrale del libro, attribuito a Francesco Colonna, è la ricerca della donna amata, allegoria a un tempo della trasformazione interiore.Ora, la 'Hypnerotomachia Poliphili' è all'origine anche di molti dei 'mostri' del Sacro Bosco di Bomarzo, ideato dall'Orsini e realizzato tra il 1550 e il 1586. Ma l'elefante tufaceo, ivi plasmato all'indomani della battaglia di Lepanto (1571) e munito di grandi orecchie, incarna l'Africa nell'atto di stritolare un legionario. Senz'altro un omaggio alla memoria del figlio Orazio, che a Lepanto aveva trovato la morte.Nella tradizione era poi ancora vivo il ricordo degli elefanti da guerra, o 'buoi lucani' come li chiamarono impropriamente a Roma, che Pirro, nella battaglia di Heraclea del 280 a.C., aveva contrapposto ai miles romani. In provincia di Cosenza peraltro si conserva il rudere di un elefante colossale scolpito nella roccia detto volgarmente 'di Pirro', ma da riferire con ogni probabilità alla preistoria.Il motivo della torretta dell'esemplare di Bomarzo è presente nel piatto a figure rosse proveniente da Capena conservato nel Museo Nazionale Estrusco di Roma. Con i due elefantini fittili rinvenuti nel Santuario di Portonaccio a Veio, il piatto è stato interpretato come 'dono votivo a Minerva, quale dea della virtus militare'. L'Orsini, che nel suo giardino aveva ammesso solo divinità pagane, vide nell'animale unicamente la 'forza' bruta e distruttrice.Nel '600 invece, furono collegati i simboli dell'antica sapienza, identificata dal Kircher sempliciter con la sapienza egizia, agli emblemi del cristianesimo. Alessandro VII dedicò l'obelisco alla Divina Sapienza, quindi elesse l'elefante, il più casto e obbediente degli animali, stando alle parole di Plinio il Vecchio ribadite ancora da Isidoro di Siviglia, a sostenerne il peso.Si modellò allora ex novo un elefante, gravato da un cubo che, i domenicani, nella cui chiesa era stato ritrovato l'obelisco, vollero caparbiamente sotto il ventre dell'animale. Il cubo fu poi coperto da una lunga gualdrappa che rese l'opera goffa oltremisura. Il Bernini si vendicò non solo posizionando l'animale con le terga rivolte verso il convento dei frati, ma anche spostandone un poco la coda.A Catania, più tardi, si riutilizzò un idolo pagano. Il culto di Dioniso era ampiamente diffuso in Sicilia in epoca ellenistico-romana; e com'è noto questi vinse le Amazzoni proprio a cavallo di un elefante. Un'epigrafe posta sullo stilobate, ci informa che il Senato e il Popolo Catanese addossarono all'elefante il 'dotto peso' per onorare la memoria di quei cittadini che furono illustri per equità, prudenza, docilità.Ma l'elefante di basalto nero, con la sua proboscide librata verso il cielo, e velato da una inutile gualdrappa, pare inneggiare a un vitalismo, già nella materia, che mal si presta a idealizzazioni posticce. Lo aveva capito Leone II, vescovo di Catania dal 765 d.C., allorché, con Eliodoro (dial. 'Liotru'), un suo rivale divenuto in seguito apostata, e ritenuto dalla tradizione il creatore dell'idolo, avrebbe voluto ardere anche l'irriverente elefantino.