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Indietro, popolo

Post n°521 pubblicato il 11 Ottobre 2008 da MacRaiser

La sinistra deve stare con il popolo, ma se il popolo odia gli zingari?
"Non c’è dilemma più nitido. Di fronte a quel bivio numerosi amministratori della sinistra lombarda (non a caso di matrice comunista amendoliana), dalla sindaco di Pavia a quello di Sesto San Giovanni, hanno imboccato la via “popolare”. Guidati dal motto politicamente scorretto, e dunque di sicura presa, coniato dal presidente della Provincia di Milano, Filippo Penati: “Non dobbiamo ripartire i campi rom. Bisogna farli semplicemente ripartire”. Versione italiana del già arcinoto manifesto leghista su cui nessuno aveva mai avuto niente da ridire: “Campi rom, foera de ball”. Il popolo, si sa, è ruvido. Quando le popolane di Ponticelli presero a sputi in faccia e male parole le zingare, dopo che certi loro scugnizzi malavitosi dotati di motorino avevano incendiato l’accampamento con le molotov, già la locale sezione del Partito democratico aveva provveduto ad affiggere sui muri di quella periferia napoletana, sotto il simbolo tricolore, quel solito slogan: “Via il campo rom”. E che nessuno parli di pogrom, per favore, la gente non capirebbe. Si trattò di “eccessi”, strumentalizzazione camorristica di un legittimo risentimento popolare, favoriti dall’inadempienza delle forze dell’ordine. C’è poi una sinistra che di fronte a quel bivio imbocca la direzione opposta, adottando gli zingari per elevarli a nuovi protagonisti dell’antagonismo metropolitano, surrogati di un proletariato ormai cooptato nel blocco di potere. Sono loro, gli zingari, l’ultimo vero popolo rivoluzionario. Il nomadismo andrebbe riconosciuto come insopprimibile vocazione, fascinosa alterità. Poco importa che la maggioranza dei “nomadi” aspiri a una residenza normale, e comunque se non sgomberati rimangano per decenni nello stesso luogo derelitto. Le elevate percentuali di devianza criminale si giustificherebbero con la loro tradizione comunitaria, impermeabile ai dogmi della proprietà privata. Le spose bambine, le maternità precoci, l’ignoranza contraccettiva sarebbero il naturale contrappunto di una società mercificata e sterile. La retorica ultraminoritaria dello “zingaro è bello” fa presa crescente nella sinistra comunista e nei centri sociali che non si limitano a protestare contro le discriminazioni e le malversazioni inflitte agli zingari. Ma giungono a contrapporsi polemicamente al volontariato sociale operante nelle baraccopoli. La paziente opera di educazione, avviamento al lavoro, regolarizzazione degli habitat (pagamento delle bollette, freno al viavai dei residenti, espulsione dei violenti), viene denunciata come snaturamento identitario: dovremmo “accettarli così come sono”, l’integrazione viene respinta come sottomissione. Questa sinistra affascinata dalla cultura rom, differenza da tutelare contro la minaccia di omologazione, non riscuote certo consensi popolari quando si oppone alle politiche di sicurezza della destra. Ma è interessante notare la rivincita simbolica incamerata dall’intellighenzia sensibile alla questione zingara: nel circuito musicale, teatrale, cinematografico, letterario e perfino sulle passerelle degli stilisti la suggestione gitana si traduce in opere di successo. Come dire: gli zingari intrigano, perfino affascinano, ma a patto che restino virtuali, alla larga da casa mia. Entrambe le visioni sopra descritte scaturiscono da una sopravvalutazione parossistica del ruolo attribuito agli zingari (non c’è altro termine generico che accomuni le popolazioni rom, sinti e camminanti) nella realtà italiana. Stiamo parlando, certo, della più grande minoranza d’Europa, tra i 7 e i 9 milioni di cittadini dell’Unione. Ma nel nostro paese, neppure dopo l’apertura delle frontiere agli immigrati dalla Romania si è raggiunta quota 200 mila: una percentuale talmente esigua rispetto alle dimensioni della penisola -tanto più se si considera che circa 60 mila sono italiani da secoli, più della metà hanno meno di 14 anni, e tra gli stranieri prevalgono gli zingari fuggiti quasi vent’anni fa dalle guerre balcaniche (tuttora condannati dalla burocrazia a restare privi di documenti)- da smentire che possano davvero rappresentare un’emergenza. La sovrarappresentazione italiana del pericolo rom è un fenomeno unico in Europa. Vi sono certo nazioni, come la Romania e la Slovacchia, in cui gli zingari subiscono un’ostilità politica e sociale, ma nell’ambito di contrapposizioni etniche alimentate da bel altra presenza numerica. Minimizzare la questione zingara risulta, ciò nonostante, impossibile. Quando si è trovata a dover gestire il turbamento dell’opinione pubblica per reati odiosi che sollecitavano allarme sociale –come l’allora sindaco Veltroni a Roma, nel caso del delitto Reggiani, novembre 2007- anche la sinistra ha fatto ricorso all’espediente degli sgomberi spettacolari. Fingendo d’ignorare che i baraccati possono venir costretti a vagabondare altrove in cerca di ricovero notturno, ma non scompaiono da un giorno all’altro. Quando erano decine di migliaia ad accamparsi nelle baraccopoli dell’hinterland romano, nei primi anni Sessanta, narrati magistralmente da Pier Paolo Pasolini, nessuna forza politica popolare avrebbe considerato redditizio assumerli come bersaglio. Erano molti di più, rispetto ai derelitti delle bidonvilles di oggi, ma non erano né stranieri né zingari. Comunità di minoranza che neppure possono godere della protezione di uno Stato alle spalle, come accade per esempio ai cinesi e agli ebrei. Bersagli ideali del malcontento popolare. Tanto più che la persistenza degli stereotipi diffusi da sette secoli sugli zingari –propensione al furto, popolo misterico e in integrabile, dedito al ratto dei bambini e alla violenza sulle donne- non è stata scalfita neppure dallo sterminio nazista di un numero di zingari compreso fra i 219 mila e il mezzo milione, tra il 1942 e il 1945, nei medesimi lager in cui venivano deportati gli ebrei. Per decenni si è preferito rimuovere il genocidio degli zingari, censurando la memoria dei sopravvissuti e talvolta addirittura giustificando la persecuzione (sentenza della Corte suprema tedesca nel 1956) in quanto “campagna preventiva contro i crimini”. Nessuno ha eretto un tabù per contrastare gli stereotipi antigitani. Le stesse persone che mai tollererebbero battute ostili nei confronti degli ebrei o dei neri, spesso ammettono una deroga culturale riguardo agli zingari. Non è considerato infame desiderarne l’eliminazione perché nei loro confronti persiste l’identificazione fra un popolo e una colpa. Difendi gli zingari? Vuol dire che sei un difensore dei delinquenti. E’ un’accusa che viene rivolta in perfetta buona fede: ma come, non ti rendi conto che “quelli” sono davvero diversi da noi, sono il male? Per alcuni mesi tra il 2007 e il 2008 la leadership veltroniana del Partito democratico si è illusa di poter cavalcare anche le pulsioni irrazionali del paese, rifugiandosi dietro a una formula anodina: “La sicurezza non è né di destra né di sinistra”. Ma proprio la sovrarapresentazione del pericolo rom si è incaricata di confutare per prima tale scioglilingua: quando accetti di trasformare in emergenza nazionale, finalizzata alla repressione o all’espulsione di un popolo, le manchevolezze della politica nell’opera di integrazione-repressione, hai già consegnato alla destra lo scettro del comando. Prima di rassegnarsi a questa banale constatazione, nella sinistra più subalterna culturalmente al leghismo abbiamo dovuto assistere a ulteriori elucubrazioni verbali. Come il Documento sulla Sicurezza diramato dal Pd lombardo nel giugno 2008 che auspicava la formazione di reparti di vigilanti volontari da affiancare alle forze di polizia, sorta di “ronde democratiche” da contrapporre alle ronde padane. Con lapsus involontario ma significativo, lo stesso documento conteneva la richiesta di un tetto percentuale per limitare l’eccessiva concentrazione di bambini stranieri nelle classi della scuola primaria: proposta di per sé non scandalosa, se i demagoghi della sinistra filoleghista non l’avessero proposta come questione di ordine pubblico. Proprio così, quando la paura gioca brutti scherzi la gente comincia a temere anche i bambini. Il caso rom è di nuovo esemplare. Se il ministro Maroni ha voluto con insistenza sottolineare la necessità di raccogliere le impronte digitali dei minori rom, è perché sa benissimo di riscuotere i consensi di una massa che in quelle manine scorge prima di tutto la destrezza dei borseggiatori impuniti. Niente di meglio, è il passo successivo, che presentarsi con cinismo beffardo come unici veri protettori di quei bambini indifesi. Favorendo il loro avviamento scolastico? Sostenendo le amministrazioni che gli schiudono l’ospitalità nelle case popolari? No, identificandoli. E promettendo loro salvezza attraverso la sottrazione ai genitori naturali. Promettendo di incrementare le revoche della patria potestà, come se tale provvedimento estremo e delicatissimo dovesse simboleggiare la liberazione dei bambini zingari –non dall’emarginazione e dalla povertà- ma dalla loro etnia maledetta. A discarico degli amministratori di sinistra che hanno cavalcato l’ostilità anti-rom, va riconosciuto che è difficile, soprattutto per dei politici, mettersi contro il popolo. Col rischio di passare per difensori della delinquenza, dei violentatori, dei ladri di bambini (sia ben chiaro: negli ultimi vent’anni non risulta un solo caso di minore rapito da zingari in Italia). I mass media registrano passivamente la commedia di un popolo esasperato, l’ira dei giusti che talvolta anticipa le forze dell’ordine nel necessario repulisti. Nei talk show televisivi da anni i leaders degli opposti schieramenti considerano improponibile adoperare la parola “integrazione” e hanno fatto semmai a gara nel promettere espulsioni, dimenticando quanto sia vasta la categoria dei drop-out non estradabili. Perfino i vescovi e i parroci troppo caritatevoli vengono accusati di tradimento, rifacendosi a dottrine medievali secondo cui la compassione e l’assistenza sono lecite solo nei confronti dei poveri appartenenti alla tua comunità: dunque i vagabondi devono essere rinchiusi, cacciati o uccisi. Così gli episodi di violenza contro la presenza degli zingari nelle periferie urbane si moltiplicano senza neppure bisogno dell’incitamento dei titoloni di prima pagina di giornali degni eredi, settant’anni dopo, de “La difesa della razza”. Si va dal solito demagogico “Obiettivo: zero campi rom”, fino al ridicolo “I rom sono la nuova mafia”, per sfociare nel bieco stereotipo “Quei rom ladri di bambini”. Sarebbe assai benefico ricordare qui il precetto biblico dell’immedesimazione (“In ogni generazione ciascuno deve considerare se stesso come se fosse uscito dall’Egitto”) e perciò ogni volta sostituire con la parola “ebrei” o “italiani” la parola “rom”. Ma è un esercizio liquidato come poco redditizio da un gruppo dirigente della sinistra che ha sottovalutato le conseguenze della sconfitta subita sul terreno dei valori di civiltà, senza neanche provarsi a difenderli. C’è infatti un’accusa particolarmente insidiosa da cui la sinistra sente il bisogno di difendersi, col rischio di accentuare la sua subalternità culturale alla destra. Difendere gli zingari; denunciare il chiaro scopo intimidatorio e discriminatorio del censimento nei cosiddetti campi nomadi e delle impronte digitali da rilevare solo a loro; ricordare che i Commissari prefettizi nominati a Roma, Milano, Napoli per l’emergenza nomadi sono i primi dal 1938 incaricati di una sovrintendenza etnica: tutto ciò avrebbe il difetto di separare ulteriormente la sinistra dal popolo. Rivelando un’ostilità elitaria tipica della casta dei privilegiati che ignorano il disagio delle periferie. L’adulazione del popolo, il germe del populismo, penetrano così anche un ceto politico amministrativo della sinistra che mal sopporta la convivenza con le sue stesse tradizioni culturali. Chi si oppone è fuori dal popolo. Ti senti buono, superiore? Allora ospitali nel tuo attico, e non venirci a dire che dobbiamo investire risorse pubbliche per mantenere e ospitare questi corpi estranei alla società perbene. I veri poveri sono i nostri italiani, gli zingari sono dei privilegiati. Non a caso impazzano leggende metropolitane secondi cui riceverebbero sussidi quotidiani dagli enti locali, e il volontariato cattolico li alloggerebbe a scapito dei concittadini senzatetto. Rinunciando a una battaglia culturale su un terreno considerato troppo sfavorevole e impopolare come la questione zingara, la sinistra ha sacrificato un tratto distintivo della sua idealità. Ma l’approccio corrivo a una destra che ricorre impunemente a termini come “derattizzazione”, allude all’eliminazione fisica dei rom, li stigmatizza con stereotipi identici a quelli antisemiti, non è solo mortificante: alla lunga si rivela anche nocivo politicamente. E’ vero che ci sono sindaci di sinistra che hanno perso le elezioni, in apparenza, solo per il fatto di aver consentito la sistemazione provvisoria sul territorio comunale di poche decine di zingari, metà dei quali bambini. E perfino un nordista come Cacciari, che strizza maliziosamente l’occhio alla Lega, viene ripagato con la furia di chi si oppone alla sistemazione di un campo per zingari italiani residenti a Venezia da decenni. Ma alla dimensione irrazionale della politica di destra può contrapporsi efficacemente solo la passione civile e religiosa, la memoria storica, la denuncia del sopruso perpetrato nei confronti di un popolo, il coraggio di propugnare un’opera d’integrazione. Nel 1938 coloro che si opposero alla legislazione razziale promulgata dal regime fascista furono accusati di “pietismo” e con questa motivazione un migliaio di loro furono espulsi dal Pnf. Perché mai dovremmo sentirci disonorati dall’accusa di “buonismo”, settant’anni dopo?" - Gad Lerner

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Commenti al Post:
magdalene57
magdalene57 il 11/10/08 alle 17:13 via WEB
... che dire? Mi sa che la nostra sinistra il popolo se l'è perso da quel di ...!!
 
 
MacRaiser
MacRaiser il 11/10/08 alle 18:05 via WEB
Ciao, Maggie :) *
 
Basta_una_scintilla
Basta_una_scintilla il 11/10/08 alle 17:15 via WEB
Avevo letto questo articolo...ha ragione maggie, che dire...? Sinistra? Quale sinistra? Riciao, Mac...
 
 
MacRaiser
MacRaiser il 11/10/08 alle 18:06 via WEB
Ciao Scintilla :)
 
Meth81
Meth81 il 17/10/08 alle 09:24 via WEB
http://massalombarda.forumattivo.com/forum.htm
 
 
MacRaiser
MacRaiser il 17/10/08 alle 09:31 via WEB
Potevi almeno scrivere qualcosa, prima di spammare.
 
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ANTONELLA ANEDDA

Vedo dal buio
come dal più radioso
dei balconi.
Il corpo è la scure:
si abbatte sulla luce
scostandola in silenzio
fino al varco più nudo -al nero
di un tempo che compone
nello spazio battuto
dai miei piedi
una terra lentissima
- promessa

---

Perfino adesso vedo
un gesto nuziale
dopo l'immensa distanza
di questa estate lenta
nell'arco dei suoi steli amari
dopo gli anni che in avanti
hanno sbarrato l'amore
perche' non si perdesse
fino a perderlo
attutito contro l'erba.
Oggi e' una notte di pioggia
possiamo traversarla
in due diversi bagliori
senza luce
dire, toccando il gelido bordo
di un bicchiere,
che tanta lontananza
non e' stata un errore
se ha cinto e sciolto segretamente
ogni irreale desiderio.


---

Volevo che
il mio amore non finisse
che resistesse intero
in disaccordo
perfino col ricordo
e ignorasse il corpo
che da me si scostava
che ne ignorasse
distanza e indifferenza
e fosse cosa mia
doppiamente intrecciata
cesta di giunco e aria,
cesta per acqua
forma che la mano conosce
e che la storia medita quando
– così di rado
per questo raramente sacra –
salva un bambino dal suo Nilo.
Così a volte
fanno canestri i pazzi
per il silenzio – credo –
che sale dagli spazi
per quella paglia
che le dita oscurano
per quel nodo terreno
di aria e di materia.


---

Se ho scritto è per pensiero
perché ero in pensiero per la vita
per gli esseri felici
stretti nell'ombra della sera
per la sera che di colpo
crollava sulle nuche.
Scrivevo per la pietà del buio
per ogni creatura che indietreggia
con la schiena premuta
a una ringhiera
per l'attesa marina
- senza grido - infinita.
Scrivi, dico a me stessa
e scrivo io per avanzare
più sola nell'enigma
perché gli occhi mi allarmano
e mio è il silenzio dei passi,
mia la luce deserta
- da brughiera -
sulla terra del viale.
Scrivi perché nulla è difeso
e la parola bosco
trema più fragile del bosco,
senza rami né uccelli
perché solo il coraggio può scavare
in alto la pazienza
fino a togliere peso
al peso nero del prato.

 
Questa felicità promessa o data
m'è dolore, dolore senza causa
o la causa se esiste è questo brivido
che sommuove
il molteplice nell'unico
come il liquido scosso nella sfera
di vetro che interpreta il fachiro.
Eppure dico: salva anche per oggi.
Torno torno le fanno guerra cose
e immagini su cui cala o si leva
o la notte o la neve
uniforme del ricordo.

Mario Luzi

---

Venite pensieri
vi penseremo a fondo
ora che e' mattino.
La luce vi fa sembrare tanto forti
da raschiare il buio
come se avessimo un coccio
e la notte fosse cuoio.
C'e' un geco sul granito.
Il suo ventre oscilla
come acqua di fonte.
E' spaventato. E' attento.
Aspetta senza capire.
Come succede a noi
quando un saluto di colpo
si trasforma in addio

---


Che speri,
che ti riprometti, amica,
se torni per così cupo viaggio
fin qua
dove nel sole le burrasche
hanno una voce
altissima abbrunata,
di gelsomino odorano e di frane?
Mi trovo qui
a questa età che sai,
né giovane né vecchio,
attendo, guardo
questa vicissitudine sospesa;
non so più quel che volli
o mi fu imposto,
entri nei miei pensieri
e n'esci illesa.
Tutto l'altro che deve essere
è ancora,
il fiume scorre,
la campagna varia,
grandina, spiove,
qualche cane latra
esce la luna, niente si riscuote,
niente
dal lungo sonno avventuroso.

Mario Luzi

---

il vento
è un'aspra voce che ammonisce
per noi stuolo
che a volte trova pace
e asilo sopra questi rami secchi.
E la schiera
ripiglia il triste volo,
migra nel cuore dei monti,
viola scavato
nel viola inesauribile,
miniera senza fondo
dello spazio.
Il volo è lento, penetra a fatica
nell'azzurro che s'apre
oltre l'azzurro,
nel tempo ch'è di là dal tempo;
alcuni mandano grida acute
che precipitano
e nessuna parete ripercuote.
Che ci somiglia
è il moto delle cime nell'ora
- quasi non si può pensare
né dire -
quando su steli invisibili
tutt'intorno
una primavera strana
fiorisce in nuvole rade
che il vento
pasce in un cielo
o umido o bruciato
e la sorte della giornata è varia,
la grandine, la pioggia,
la schiarita.

Mario Luzi

---

Poco dopo si è qui come sai bene,
file d'anime lungo la cornice,
chi pronto al balzo,
chi quasi in catene.
Qualcuno sulla pagina del mare
traccia un segno di vita,
figge un punto.
Raramente
qualche gabbiano appare.

Mario Luzi
 
E’ pur nostro il disfarsi delle sere.
E per noi è la stria che dal mare
sale al parco e ferisce gli aloè.
Puoi condurmi per mano,
se tu fingi di crederti con me,
se ho la follia di seguirti lontano
e ciò che stringi, ciò che dici,
m’appare in tuo potere.
Fosse tua vita quella
che mi tiene sulle soglie
e potrei prestarti un volto,
vaneggiarti figura. Ma non è,
non è così. Il polipo che insinua
tentacoli d’inchiostro tra gli scogli
può servirsi di te.
Tu gli appartieni e non lo sai.
Sei lui, ti credi te.

Eugenio Montale

---

Sempre di nuovo,
benchè sappiamo
il paesaggio d'amore
e il breve cimitero
con i suoi tristi nomi
e il pauroso abisso silente,
dove per gli altri è la fine:
torniamo a coppie tuttavia
di nuovo tra gli antichi alberi,
ci posiamo sempre, di nuovo,
con i fiori contro il cielo.

Rainer Maria Rilke

---

Felicita’ raggiunta, si cammina
per te sul fil di lama.
Agli occhi sei barlume che vacilla,
al piede,
teso ghiaccio che s’incrina;
e dunque non ti tocchi
chi piu’ t’ama.
Se giungi sulle anime invase
di tristezza e le schiari,
il tuo mattino
e’ dolce e turbatore
come i nidi delle cimase.
Ma nulla
paga il pianto del bambino
a cui fugge il pallone tra le case.

Eugenio Montale

---

Il suo sguardo,
dopo tanto fissare,
e’ divenuto cosi’ stanco
che non puo’ accettare null’altro.
Per lei
e’ come se le sbarre
fossero migliaia,
e oltre le migliaia di sbarre:
nessun mondo.
Nel suo girare
in quel cerchio ristretto,
senza soste,
la sua potente falcata
diviene una danza rituale
attorno ad un centro,
dove una grande volonta’
si trova come paralizzata.
A volte,
le palpebre si sollevano in silenzio
ed una forma entra,
scivola attraverso
l’angusto silenzio tra le spalle,
raggiunge il cuore,
e muore.

Rainer Maria Rilke – La pantera

---

Gettava pesci vivi
a pellicani famelici.
Sono vita anche i pesci fu rilevato,
ma di gerararchia inferiore.
A quale gerarchia
apparteniamo noi
e in quali fauci…?
Qui tacque il teologo
e si asciugo’ il sudore.

Eugenio Montale
 

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MARIA LUISA SPAZIANI

Quelle labbra
ch'era peccato mordere
tanto infantili e tenere s'aprivano
(neve di sogno
non può il tempo sciogliere)
chiude un sigillo di divina cera.
Ma avete flauti eterni
come il mare,
o labbra più profonde della sera.

 

ANTONELLA ANEDDA

Dell'incedere a scatti di quell'uomo
che nella strada per Venaco
gridava dentro il sole
non s'e' mai detto nulla
nulla della camicia
strappata sulle ascelle
e dei piedi circondati di paglia
ne' della voce bruciata di francese.
Lo aspetto' l'inverno,
lo strinse nel ramo di una scala
lo spinse piano
col volto tra i vasi di gerani

---

Per trovare la ragione di un verbo
perché ancora
davvero non é tempo
e non sappiamo
se accorrere o fuggire.
Fai sera come fosse dicembre
sulle casse innalzate
sul cuneo del trasloco
dai forma al buio
mentre il cibo
s'infiamma alla parete.
Queste sono le notti
di pace occidentale
nei loro raggi vola
l'angustia delle biografie
gli acini scuri dei ritratti,
i cartigli dei nomi.
Ci difende di lato un'altra quiete
come un peso marino nella iuta
piegato a lungo, con disperazione.

---

Non esiste innocenza
in questa lingua
ascolta come si spezzano i discorsi
come anche qui sia guerra
diversa guerra
ma guerra - in un tempo assetato.
Per questo scrivo con riluttanza
con pochi sterpi di frase
stretti a una lingua usuale
quella di cui dispongo
per chiamare
laggiù perfino il buio
che scuote le campane.

 

PEDRO SALINAS

Non voglio che ti allontani,
dolore, ultima forma
di amare. Io mi sento vivere
quando tu mi fai male
non in te, né qui, più oltre:
sulla terra, nell'anno
da dove vieni
nell'amore con lei
e tutto ciò che fu.
In quella realtà
sommersa che nega se stessa
ed ostinatamente afferma
di non essere esistita mai,
d'essere stata nient'altro
che un mio pretesto per vivere.
Se tu non mi restassi,
dolore, irrefutabile,
io potrei anche crederlo;
ma mi rimani tu.
La tua verità mi assicura
che niente fu menzogna.
E fino a quando ti potrò sentire,
sarai per me, dolore,
la prova di un'altra vita
in cui non mi dolevi.
La grande prova, lontano,
che è esistita, che esiste,
che mi ha amato, sì,
che la sto amando ancora.

---

Quello che sei
mi distrae da quello che dici:
Lanci parole veloci,
pavesate di risa,
invitandomi
ad andare dove mi porteranno.
Non ti presto attenzione,
non le seguo: sto guardando
le labbra da cui sono nate.
Intanto guardi lontano.
Fissi lo sguardo laggiù,
non so in cosa, e già si precipita
a cercarlo la tua anima
affilata, come saetta.
Io non guardo dove guardi:
io ti vedo guardare.
E quando desideri qualcosa
non penso a quello che vuoi
nè lo invidio: è il meno.
Ciò che ami oggi, lo desideri;
domani lo dimenticherai
per un nuovo amore.
No. Ti aspetto
oltre qualsiasi fine o termine
in ciò che non deve succedere.
Io resto nel puro atto
del tuo desiderio, amandoti.
E non voglio altro
che vederti amare.

 

REINER MARIA RILKE

Niente è paragonabile.
Esiste forse cosa
che non sia tutta sola
con se stessa e indicibile?
Invano diamo nomi,
solo è dato accettare
e accordarci
che forse qua un lampo,
là uno sguardo ci abbia sfiorato,
come se proprio in questo
consistesse vivere la nostra vita.
Chi si oppone
perde la sua parte di mondo.
E chi troppo comprende
manca l’incontro con l’eterno.
A volte
in notti grandi come questa
siamo quasi fuori pericolo,
in leggere parti uguali
spartiti fra le stelle.
Immensa moltitudine

---

Sii paziente verso tutto ciò
che è irrisolto nel tuo cuore
e cerca di amare le domande,
che sono simili
a stanze chiuse a chiave
e a libri scritti in lingua straniera.
Non cercare ora le risposte
che non ti possone essere date
poichè non saresti capace
di convivere con esse.
E il punto è vivere ogni cosa.
Vivi le domande ora.
Forse ti sarà dato,
senza che tu te ne accorga,
di vivere fino al lontano giorno,
in cui avrai la risposta.

 
Che io debba ricevere il castigo
neppure si discute. Resta oscuro
se cio’ accada in futuro oppure ora
o se sia gia’ avvenuto
prima che io fossi.
Non ch’io intenda evocare
l’esecrabile fantasma
del peccato originale.
Il disastro fu prima dell’origine
se un prima e un dopo
hanno ancora un senso.

Eugenio Montale

---

Perfino adesso vedo un gesto nuziale
dopo l'immensa distanza
di questa estate lenta
nell'arco dei suoi steli amari
dopo gli anni che in avanti
hanno sbarrato l'amore
perche' non si perdesse
fino a perderlo attutito contro l'erba.
Oggi e' una notte di pioggia
possiamo traversarla
in due diversi bagliori senza luce
dire, toccando il gelido bordo
di un bicchiere,
che tanta lontananza
non e' stata un errore
se ha cinto e sciolto segretamente
ogni irreale desiderio.

Antonella Anedda


---

Mia vita,
a te non chiedo lineamenti
fissi, volti plausibili o possessi.
Nel tuo giro inquieto
ormai lo stesso sapore
han miele e assenzio.
Il cuore che ogni moto tiene a vile
raro è squassato da trasalimenti.
Così suona talvolta nel silenzio
della campagna un colpo di fucile.

Eugenio Montale

---

Volevo che
il mio amore non finisse
che resistesse intero
in disaccordo
perfino col ricordo
e ignorasse il corpo
che da me si scostava
che ne ignorasse
distanza e indifferenza
e fosse cosa mia
doppiamente intrecciata
cesta di giunco e aria,
cesta per acqua
forma che la mano conosce
e che la storia medita quando
– così di rado
per questo raramente sacra –
salva un bambino dal suo Nilo.
Così a volte
fanno canestri i pazzi
per il silenzio – credo –
che sale dagli spazi
per quella paglia
che le dita oscurano
per quel nodo terreno
di aria e di materia.

Antonella Anedda

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Se ho scritto è per pensiero
perché ero in pensiero per la vita
per gli esseri felici
stretti nell'ombra della sera
per la sera che di colpo
crollava sulle nuche.
Scrivevo per la pietà del buio
per ogni creatura che indietreggia
con la schiena premuta
a una ringhiera
per l'attesa marina
- senza grido - infinita.
Scrivi, dico a me stessa
e scrivo io per avanzare
più sola nell'enigma
perché gli occhi mi allarmano
e mio è il silenzio dei passi,
mia la luce deserta
- da brughiera -
sulla terra del viale.
Scrivi perché nulla è difeso
e la parola bosco
trema più fragile del bosco,
senza rami né uccelli
perché solo il coraggio può scavare
in alto la pazienza
fino a togliere peso
al peso nero del prato.

Antonella Anedda
 
Questo tetto che affiora dalla notte
ci protegge piu' di una croce o un santo.
Ora che improvvisamente piove
e' benedetto.
In un'abside di plastica bagnata
splende una pianta di ortensie azzurro-fuoco

Antonella Anedda

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...
Soffiero' su quel viso
mischiando i suoi gesti
a quelli di amori passati,
prendendo i ricordi migliori
le poche frasi di ognuno
fino a costruire il mio Golem
il mio amore brucera' altissimo e ignoto
lungo la cappa del camino.
...

Antonella Anedda


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Vergine altera, mia compagna
t'arde un mistero negli occhi.
Non so se odio o amore
e' questa luce eterna
della tua nera faretra.
Con me verrai
finche' proietti un'ombra il corpo
e resti ai miei sandali arena.
La sete o l'acqua sei
sul mio cammino?
Dimmi, vergine altera,
mia compagna.

- Antonio Machado -

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...
Pensi davvero che basti non avere colpe
per non essere puniti,
ma tu hai colpe.
L'aria e' piena di grida.
Sono attaccate ai muri,
basta sfregare leggermente.
Dai mattoni salgono respiri,
brandelli di parole.
...

Antonella Anedda
 

 

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