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« Lecce la mia signora

 QUESTO TESTO PARTECIPA AL GIOCO LETTERARIO "COME ERAVAMO"

Post n°5 pubblicato il 21 Ottobre 2007 da mercedesse

Diversamente da quello che hanno fatto altri partecipanti,ho descritto un episodio della mia primissima infanzia (anni '50) che ha contribuito ad affinare la mia curiosità verso gli altri, il loro modo di comunicare con i gesti e con le parole.

CAMBIO DI STAGIONE

La mia infanzia è stata felice, molto. Della povertà, dei grossi sacrifici che era necessario fare in quell’immediato dopoguerra, io non me ne sono mai accorta.
Ho avuto la gioia immensa di avere due genitori speciali che hanno saputo
spingermi a curiosare tra le cose della vita, senza inutili paternalismi o divieti immotivati. E se non tutto andava come io da bambina avrei voluto, loro mi hanno consentito di soffrire. Sempre però ho sentito la loro discreta presenza che non mi ha fatto  annegare nelle mie lacrime. Il loro ottimismo, l’ironia, le esilaranti battute di spirito, più volte, mi  hanno fatto superare gli insuccessi e gli ostacoli  che da sempre danno  comunque sapidità alla vita.
Le mie tre sorelle nate dopo di me, in vari periodi della mia crescita, hanno fatto sì che io comprendessi il valore della condivisione, che affinassi la capacità di scrutare gli umori degli altri, attraverso i loro gesti, gli sguardi rubati, i silenzi eloquenti, la sfida dei loro bronci o dei capricci apparentemente immotivati. Ho imparato a gioire delle loro risate fragorose ed inaspettate per i giochi nuovi che per loro andavo inventando, ed ho capito come si può comunicare anche senza parlare.
Conservo ancora immagini mentali e sensazioni a pelle di gioie immense da soffocare il respiro, che nel tempo sono state una zattera, un mezzo sicuro per vivere più intensamente o per affrontare con leggerezza, una realtà che in quel momento facevo fatica ad accettare.
 Questo modo di affrontare le cose della vita era, ed è ancora oggi, un segreto che si libera della sua natura, perché io lo comunico a chiunque si trovi a passare accanto alla mia di vita e che penso abbia bisogno di un po’ d’aiuto.
Quindi c’è sempre, sempre, un modo per non soffrire “tutta” e, se siamo attenti, quel modo lo abbiamo già pronto nella nostra mente, o nel cuore, basta fermarsi un attimo, ascoltarsi ed ecco che funziona! C’è, il mezzo, c’è! Basta cercarlo!
Ho sempre posseduto una memoria formidabile, allenata inconsapevolmente da coloro i quali credevano di vedere in me una specie di bambina prodigio. Loro si divertivano a farmi ripetere le parole ed i gesti che, ritenevano inconsueti per la mia età. Ma è stato proprio questo che ha reso possibile che io allenassi la mia memoria alla capacità di custodire con una impressione quasi fotografica i fatti, le immagini  che appartengono alla mia più tenera età e a chi in modi diversi, ha dato nerbo alla mia vita.
La mia infanzia mi scorre nella mente come i fotogrammi in una pellicola che può andare avanti o indietro.

 

LA ‘NDULURATA

La casa in cui sono nata confinava con un’altra simile alla mia, anzi più umile della mia. Questa era abitata dalla “‘Ndulurata” e da sue due figlie. La più grande la ricordo come un’ombra opaca. Era magra, pallida, bruna, con una peluria scura sul labbro superiore. Immobile e senza sorriso. La sua voce, i suoi gesti o il suo odore sembravano non appartenere a quella casa.

Poi c’era Maria, la sorella più piccola. Io la vedevo alta, perché avevo appena due anni. Aveva i capelli ondulati ed una voce profonda, gutturale,  le gengive alte e  i denti piccoli.
Stavo sempre in quella casa, o meglio, ci stavo tutte le volte che trovavo la porta aperta, ed allora succedeva spesso.
La ‘Ndulurata mi voleva molto bene, aveva per me sempre una storia da raccontare, una ninna nanna da cantare, appollaiata su una sedia impagliata, alla quale erano state segate parte delle gambe, per consentire al suo piccolo corpo di stare comodo e ben piantato. Sento ancora l’odore caldo del suo grembiule nero a fiorellini bianchi, che sapeva di legna bruciata e di cucina, ed il suono della sua voce tremula che accompagnava il ritmo dondolante della mezza sedia, mentre cantava “ninnao ninnao, sta piccinna a chi la dò…”
Mi piaceva pure la Maria, anche se spesso mi guardava con aria infastidita, forse perché ero sempre tra i piedi…
Una sera la ‘Ndulurata mi chiamò e mi disse con molta serietà: - Ho da fare, tu stai qua, vicino alla Maria e a Pietrino, non ti muovere, guardali, ora torno capito? –
Dissi di sì, presi lo scannetto, lo misi ai piedi della giovane donna e del suo innamorato che si chiamava Pietrino appunto, mi sedetti e cominciai a guardare fissa i due poveretti…
Non appena i passi della ‘Ndulurata si dileguarono, subito un lungo braccio si avvinghiò intorno alla vita di Maria.
Io intanto facevo il mio dovere: guardavo ora il profilo di lei, ora quello di lui. Loro due si guardavano fissi negli occhi, come facevano le galline della nonna Pasqualina quando litigavano per un lombrico.
Sentivo respiri un po’ faticosi, e quelli, le galline proprio non li sapevano fare, ma  io sì, quando avevo corso tanto. Uguale!
Continuavo a guardare, così mi aveva detto di fare la ‘Ndulurata ed io così facevo!
Non vedevo altro che braccia aggrovigliate e, di tanto in tanto, gli occhi di lui che mi scrutavano e quelli di lei che mi guardavano infastiditi.
Io imperterrita ero lì per guardare e guardavo…Mi domandavo anche perché facessero finta di non baciarsi se poi invece si baciavano, nascondendosi dietro ai gomiti. Che stupidi! Io li vedevo lo stesso! Certi adulti  non li capivo molto bene.
Un ciabattare rumoroso venne da poco lontano. Voltai lo sguardo alla porta, poi lo ricondussi verso la Maria e Pietrino.
Le braccia, i profili e tutto il resto erano al loro posto. Due figure composte, immobili, silenziose, niente occhi di gallina, né fiatoni da corsa. Solo che Pietrino ora, aveva un dito poggiato sulle labbra e con lo sguardo minaccioso mi fulminava senza dire nulla.
-Sono qui!- La voce della ‘Ndulurata portò tre paia di occhi puntati verso l’entrata. 
–Allora? E’ tutto a posto?- disse, mentre strascicava le vecchie ciabatte verso di noi.
Mi squadrò, girai la testa verso Maria e Pietrino. Loro mi guardavano muti.
-Ho freddo, ho freddo - dissi stringendomi nelle spalle benché, l’aria fosse calda e densa di umidità e correndo andai a  nascondere il viso nell’accogliente odore del grembiule bianco e nero della vecchietta più bella del mondo.
 -Va bene, ho capito, va bene, vieni che ti racconto una storia, qua, vicino a me, vieni!-
Con la coda dell’occhio guardai i due e mi domandai perché poco prima mi avevano fulminata con lo sguardo ed ora sorridevano felici.
Per molto tempo alcune persone mi hanno chiesto spesso: -Che cosa hai detto alla ‘Ndulurata?- Ed io rispondevo –Fa freddo, fa freddo!!- senza che io capissi perché, dopo la mia risposta, vera, ridessero con così tanto gusto! Loro non conoscevano il freddo di certi sguardi. Io sì!

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