Creato da middlemarch_g il 24/01/2008
'Fallisci meglio' è il mio secondo nome
 

 

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Matrimoni

Post n°267 pubblicato il 22 Settembre 2008 da middlemarch_g
 

Che culo. Ieri era una giornata schifosa. E domani – lo so per certo perché parlo con il senno di poi – sarà di nuovo una giornata schifosa. In generale il tempo resterà schifoso fino a tutto il fine settimana compreso. Oggi invece c’è un clima da Mulino Bianco. Per questo dico: che culo. Perché quando scegli di sposarti e in una lunga teoria di giornate di merda centri proprio quella con un sole così, la temperatura fissa a 25 gradi, la bavetta di vento, le nuvole a pecorelle, il paesino medioevale suggestivo, e il sindaco gioviale con la giacca a scacchettoni e la fascia tricolore con la nappa, allora vuol dire che tutto congiura per la tua felicità.

Poi c’è poca gente, pochissima, giusto lo stretto necessario. Rischi di sovraffollamento non ce n’erano comunque, perché mio padre è un tipo dalle inclinazioni pubbliche e cerimoniali molto low profile e oltretutto parenti stretti proprio non ne ha. E quindi – Dio ti ringrazio! – è possibile serenamente ignorare tutti quei codicilli imprescindibili che in queste occasioni impongono la vacua esigenza di riempire il silenzio con frasi di rito o, in alternativa, accettare di passare per psicopatici stronzi. Di norma la mia opzione preferita. Che inibisce la possibilità che qualcuno ti rivolga la parola, ma potenzia molto il rischio degli sguardi di sottecchi. Roba comunque fastidiosa.

Le cerimonie in Comune non durano niente. Se arrivi con 5 minuti di ritardo ti sei perso il matrimonio. Per me è l’optimum, tanto più che sono puntuale di natura e grossi rischi in questo senso non ne corro mai. Questo perché ho la conversione commotiva breve e fulminante. Mi viene da piangere, lacrimo, abbraccio, stringo, dico ti voglio bene, e per tutto il pacchetto cinque minuti sono più che sufficienti. Infatti le cerimonie brevi mi piacciono tutte. Che ne so, le sessioni di laurea per esempio: uno non fa in tempo a dire in nome del presidente della Repubblica Italiana la nomino dottore in, che io sono giù tutta un umidore accademico. I cerimoniali che presuppongono stati emotivi protratti invece – tipo le cerimonie in chiesa di qualunque natura - mi scassano l’anima e mi comportano picchi di noia mortale totalmente inibenti sul piano sentimentale. Un altro punto a favore di questa giornata.

Quando il sindaco finisce di leggere quello che deve dire e li dichiara marito e moglie, a me viene da sorridere. Fino a un secondo fa l’unica signora vivente del mio ceppo familiare con il diritto di portare quel cognome ero io. Ho perso il primato. Tocca farsi da parte. C’è una nuova signora C. in città. Mi fa un po’ specie, anche simbolicamente. In qualche modo non perdi mai l’ambizione di restare per sempre l’unica signore C. nel cuore di tuo padre, specie se l’altra signora C. non è tua madre, e non ci voleva Freud per spiegarci questa cosa. Forse senza di lui non saremmo state in grado di articolare il concetto nelle sue contorte relazioni con la Seconda Topica, ma ce l’avevamo comunque chiarissimo lo stesso. Va bene, un punto in meno. Rifaccio i conti. La giornata resta sempre in netto vantaggio.

L’aperitivo è all’aperto e il ristorante, di cui apprezzo l’assoluta assenza di ogni velleità di prestigio, ci serve dei fiori di zucca fritti in pastella che a ripensarci adesso non c’è papilla gustativa che non se ne ricordi con commozione, neanche quelle più periferiche. Certo, sono fiori di zucca senza il filettino d’acciuga. In un primo momento lo rilevo con rammarico. Ma poi mi ricordo che il filettino d’acciuga nel fiore di zucca è una specialità romana, e Roma è a 50 chilometri. Non è il caso di cagare esageratamente il cavolo, specie con dei fiori di zucca che ti sciolgono in bocca come crema pasticcera. E il resto è buono. Dignitoso e buono. Non troppo abbondante. Non troppo lento. E si conclude con una zuppa inglese che in assenza di posate avrei leccato anche dal piatto. Il punteggio si accresce in positivo.

Verso la fine mi alzo per sgranchirmi le gambe. Al rientro in sala osservo gli ospiti, sistemati come per i matrimoni di campagna lungo un unico tavolo a C che corre sui tre lati della sala, con gli sposi nella canonica disposizione riservata nell’Ultima Cena al duo Cristo-S.Giovanni, cioè proprio in mezzo, identificati dal centrotavola floreale. Lo ammetto, fa un po’ strapaese. Del resto questo è un paese, lo sapevamo fin dall’inizio, e a noi inurbati i paesi piacciono proprio perché ci permettono di misurare la distanza che ci separa dalle nostre comuni radici contadine. Non è questo che richiama la mia attenzione del resto. Piuttosto è il fatto che alla destra dello sposo è seduto mio fratello minore, poi c’è il mio posto vuoto, e subito dopo mia madre. Meno di 2 gradi di separazione dividono le mogli di mio padre l’una dall’altra. E sono tutti molto sereni. Nessuno qui è stato obbligato a presenziare. Nessuno è stato obbligato a invitare. Tutti sono qui per il loro piacere. E questo è strano e bello, perché noi non siamo una famiglia speciale. Siamo normali, normalissimi, inutile candidarsi a qualche genere di concorso che premi un qualsiasi signum electionis della nostra originalità, perché non lo vinceremmo. Però io sono felice. E orgogliosa anche, perché no? Orgogliosa. Perché se siamo stati capaci di fare questo – un uomo che si sposa, seduto tra i suoi figli e le sue mogli senza che nulla di tutto ciò abbia il potere di inacidire una giornata di festa – evidentemente qualcosa di buono l’abbiamo fatta anche noi.

Cosa resta da dire? Ah si. Viva gli sposi.

 
 
 
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Ho sempre tentato. Ho sempre fallito. Non discutere. Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio.

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