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Cose che si capiscono al Despar


A cosa servono i figli? E’ una domanda strana, me ne rendo conto. I figli non dovrebbero servire a niente. Servire è un verbo che non si presta alla scelta di nascere, che è una realtà di assoluta autonomia. Io mi sono sempre immaginata i figli come una cosa che transita attraverso il tuo corpo per ragioni puramente accidentali. Un’anima che si incarna tramite te come potrebbe prendere un autobus o un altro mezzo qualsiasi. Devo arrivare là, faccio un pezzo di strada sui gameti di mamma e papà ancora un po’ scisso, poi mi riunisco nell’ovulo fecondato che sto più largo e più comodo, e poi mi faccio spadellare a destinazione quand’è arrivato il momento. Una cosa così. Perché per me la sacralità di autonomia di un figlio è una cosa assoluta. Lui arriva, e deve essere chiaro fin da subito che non ti deve niente. Tu gli devi tutto semmai, perché hai scelto. Lui ha preso il primo treno che passava e se non c’eri tu ne prendeva un altro, per cui datti una regolata. Non sta qua per appagare nessuna delle tue mancanze, non sta qua per incarnare qualcuna delle tue proiezioni, non sta qua per raggiungere al posto tuo qualche obiettivo che hai cannato. Sta qua per se stesso, e basta. In questo, un figlio è un dio. Poi, certo, a te sta il compito di educarlo, e a volte bisogna metterla giù un po’ dura. Ma quella è un’altra faccenda.Il punto però è che questo non spiega tutto, perché io non credo all’unilateralità delle funzioni, specie quelle esistenziali. E’ vero che un figlio può essere figlio tuo come di chiunque altro, ma se viene da te, ci deve essere una ragione. Non per lui, lui non ha bisogno di giustificazioni per esistere. Ma per te.E oggi mentre mi aggiravo al Despar col mio carrello tra gli scaffali ho avuto una specie di illuminazione. Ho capito cosa me ne farei io di un figlio, se lo avessi. Ho capito a quale funzione assolverebbe strepitosamente bene. L’ho capito nell’attimo in cui ho incrociato una signora col figlio di due anni in piedi dentro al carrello, attaccato alla rastrelliera delle caramelle mentre lei cercava di convincerlo a proseguire. L’ho capito perché fin dalle primissime ore della mattina ero stata devastata da brutti pensieri che odio e che mi portano sempre lontano dal consorzio umano a battere traiettorie inutili e autolesioniste che servono solo a rallentare i miei movimenti e non mi portano un centimetro più vicino alla verità. Un figlio ti incatena alla vita, non alle sue varianti speculative. Un figlio ti protegge dalle seghe mentali, ti ancora alla concretezza dell’esistenza, ti obbliga a prendere atto della distanza che puoi percorrere a piedi invece di quella smisurata delle tue ambizioni. Un figlio ti costringe a declinare la vita tutta all’indicativo presente e a dimenticare certi modi pretenziosi che servono a descrivere il desiderio. Ma c’è di più: un figlio ti obbliga a dire a te stesso chi sei, perché bisogna saper rispondere a questa domanda quando si sceglie di prendersi cura di un altro essere umano. Sapere chi sei è l’equivalente della tua liquidità esistenziale. E se vuoi impegnarti in quel tipo di mutuo emotivo, devi essere solvibile, non ci sono cazzi.Ne capisco di cose io al Despar, eh? Vabbè. Per stavolta mi sa che è tardi. Ma la prossima vita bisogna proprio che mi faccia un appunto. Fare un figlio. Almeno per vedere l’effetto che fa.