Creato da middlemarch_g il 24/01/2008
'Fallisci meglio' è il mio secondo nome
 

Messaggi di Maggio 2011

Tigers and lambs

Post n°650 pubblicato il 19 Maggio 2011 da middlemarch_g
 

Mi fa sempre sorridere questa polemica che va tanto di moda. Quella sullo stile educativo. Mamme tigri o mamme agnello.  Con quale delle due opzioni otterrai più facilmente il risultato di tirar su una creatura che sia esattamente lo specchio delle tue ambizioni, o che almeno non ti faccia vergognare in pubblico?

Mi fa sorridere per almeno tre buone ragioni. La prima è che implica che un figlio sia una cosa che può venirti bene o male. Come un sartù di riso - che lo sa Iddio quanto maiala devi essere per preservarlo dall'impotentia erigendi et coeundi all'uscita dal forno - o una pastiera napoletana. Per cui, per esempio, se si applica alla tabelline vuol dire che t'è venuto bene, e se schifa la matematica è un fallito. E questo per citarne una che è innocua e fondamentalmente innocente. Non parliamo nemmeno dell'ipotesi che l'armageddon si scateni con l'artiglieria pesante. Metti che ti esca fuori omosessuale quando tu magari sei un fiero scopatore.  Sono cose capaci di annichilire il più calvinista degli educatori.

La seconda è la correlazione attesa tra quello che fai tu e il modo in cui questo dovrebbe modificare ciò che lui sceglie di diventare, nel bene e nel male. Come se i figli non godessero del libero arbitrio e il mondo non fosse pieno di individui che, a Dio piacendo, se ne catafottono alla grandissima di quel che hanno ascoltato in casa e se ne vanno per la propria strada liberi e felici.

La terza invece si fonda sull'ignoranza di un precetto per cui non posso attingere a nessun testo sacro, a parte la mia personale esperienza delle cose del mondo. Che per inciso è l'unico testo sacro che sono disposta a rispettare. E' disarmante credere che la reattività di un figlio dipenda da quello che gli dici, che gli consenti o che gli impedisci. L'unica cosa che i tuoi figli avranno sempre chiaro come il sole non è quello che fai, è quello che sei.  Puoi predicare efficacemente come un profeta,  se ti riesce puoi perfino dar fuoco a qualche roveto ardente per autocombustione per aggiungere mistero e suggestione ai tuoi proclami. Ma se parli della verità e indossi una maschera; se gli racconti che dovrà fare così e cosà per essere felice e ti accampi sull'orlo della depressione; se lo indottrini sulle virtù del rispetto di sè e vivi da miserabile; se lo inviti a godere della gioia e della pienezza e ti accontenti di farti strangolare in qualche topaia emozionale, poi secondo non è che ti puoi aspettare questo granchè.  Indipendentemente dall'animale che scegli per farti da avatar.

 
 
 

Faccia da funerale

Post n°649 pubblicato il 15 Maggio 2011 da middlemarch_g
 

Venerdì sono stata a un funerale. Non direi che il legame di parentela giustificasse la mia presenza in chiesa, o che la morte della defunta avesse motivo di essere definita prematura:  i 90 anni della Rina complessivamente davano un senso piuttosto compiuto al suo trapasso e a tutto il cerimoniale connesso. E' che Rina mi piaceva, e non la vedevo da tantissimo tempo.

Sono andata volentieri, ma temevo qualche contraccolpo perferico che infatti c'è stato. Perché quello che mi crea problemi ai funerali, come del resto anche ai matrimoni o in tutto l'apparato della fenomenologia liturgica, non è il prima e il dopo, che anzi mi piace. E' il durante. Sono le parole della fede.

Questo perché ai miei tempi ho avuto un periodo di ardente fervore devozionale. E' stato intorno alla fine degli anni '80, e anche all'epoca in cui pure giocavo in casa, c'era una cosa che mi faceva impazzire: la vacuità con cui nel cattolicesiomo si ripetono gesti e parole senza avere la minima idea di quello che si dice e del perché lo si fa. Il rito potrebbe essere in lingua kazara, e per la maggior parte dei presenti non farebbe nessuna differenza, tanto basta guardarli per capire che il decorso sotterraneo dei loro pensieri si àncora alla litania solo per calarsi in fondo ai cunicoli della coscienza inseguendo il ritmo ondivago del chiacchiericcio interiore. La devozione ti aiuta. Non ci sono solo le parole. C'è una precisa e rigida gestualità per cui ti alzi, ti inginocchi, ti rialzi e ti siedi, ed è così intima e interiorizzata che perfino il mio apparato scheletrico e muscolare, che non assiste più a una cerimonia da credente da almeno 25 anni, conserva ancora perfetta memoria della sequenza del pattern verbale e cinestetico. Non mi allineo, naturalmente, ma mi costa uno sforzo cosciente. E anche se non ripeto quelle parole, mi risuonano in testa un attimo prima che l'assemblea le pronunci, e devo irrigidirmi per non assecondare l'impulso delle ginocchia a flettersi o sollevarsi secondo le richieste del cerimoniale.

Da credente mi costringevo a riflettere sempre su quel che ripetevo. Il risultato è che appena ho capito quanto fossi distante dal cattolicesimo, il mio pathos filologico mi si è rivoltato contro. Perché è vero che ho smesso di andare in chiesa, ma quando poi mi tocca presenziare a una cerimonia, proprio ora che mi farebbe tanto comodo sganciarmi con la mente e pensare ai fatti miei, qualcosa mi impone di esserci e mi tocca far caso a quello che si dice. Anche se lo dicono gli altri.

Così quando il prete nell'omelia ha esaltato la vita di sacrifici della povera Rina, poi ha ricordato come lei fosse ormai pacificata e quieta, e infine ha creato un nesso di intima relazione causale tra il punto uno e il punto due - perché le persone buone sanno che un grande amore le attende nell'altra vita - io mi sono arrabbiata. Indignata forse. E intristita.

Perchè vedo che siamo sempre dalle parti del cattosadomasochismo. Da una parte la Vita che ti opprime. Dall'altra l'Amore che ti attende. E dopo duemila anni stiamo ancora qui a oscillare fra i due estremi di questa solennissima minchiata in forma di polarità, che ti spinge a credere che il Bene sta Dillà. E che quindi per conseguenza non sta Diquà. Per cui Diquà è bene non aspettarselo. Non cercarlo. Non desiderarlo. Possibilmente non pensarci nemmeno. L'unica opzione lecita è cercare di guadagnarselo.

Basta. Basta. Per favore basta. Facciamo davvero che basta? L'Amore non sta Dillà. Sta Diquà. E non va guadagnato. E' un prodotto Creative Commons non passibile di commercializzazione. L'Amore che sta Diquà è gratis. L'unica cosa per cui vale la pena stare al mondo, è lavorare alla consapevolezza di meritarselo per il solo fatto di essere qui. Vivi. E con un cuore che batte forte, puttana miseria.

 
 
 

C'è un solo comandamento

Post n°648 pubblicato il 13 Maggio 2011 da middlemarch_g
 

Quando sei così prosciugato da non ricordare nemmeno più il suono o la densità del desiderio, vuol dire che devi fare qualcosa.

L'amore non dovrebbe mai essere un'attenuante per trascurare l'unica creatura di cui sei davvero responsabile. Sii amorevole con te stesso. Nessuno sa farlo così bene come te.

Per non parlare di quanto sai farlo male, all'occorrenza.

 
 
 

Tutto ti parla

Post n°647 pubblicato il 11 Maggio 2011 da middlemarch_g

In primavera ti guardi in giro cercando di decodificare i segnali dell'universo e non puoi davvero fare a meno di chiederti: cosa sarebbero le donne senza la battaglia contro gli inestetismi della cellulite?

 
 
 

Mi rifiuta il titolo obiettando che è troppo lungo

Post n°646 pubblicato il 09 Maggio 2011 da middlemarch_g

Il titolo era questo:

Perché in amore c'è un criterio minimo universale che consiste nel rifiutarsi di scendere al di sotto della soglia del rispetto per se stessi?

Perchè si. E adesso piantatela di fare domande imbecilli.

 
 
 

Great expectations

Ho sempre tentato. Ho sempre fallito. Non discutere. Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio.

Samuel Beckett

 

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