Tracce di vita

sempre più a rischio i diritti delle donne


Fino al 1975 l’aborto era in Italia ancora una pratica illegale: uno degli ultimi Paesi europei a considerarlo un reato. Ciò non significava, ovviamente, che di aborti non ne avvenissero: anzi, le donne italiane, già svantaggiate da una legislazione punitiva nei confronti della contraccezione, quando incappavano in una gravidanza non voluta si dovevano rivolgere clandestinamente alle famigerate “mammane”, praticone senza scrupoli che, con mezzi assolutamente non idonei e in cambio di un lauto compenso, “risolvevano il problema”, talvolta al prezzo della vita della donna stessa. Nel 1975 una sentenza della Corte Costituzionale stabiliva finalmente la «differenza» tra un embrione e un essere umano e sanciva la prevalenza della salute della madre rispetto alla vita del nascituro. Il 22 maggio 1978 veniva approvata la “storica” legge 194, con la quale si riconosceva il diritto della donna ad interrompere, gratuitamente e nelle strutture pubbliche, la gravidanza indesiderata. In essa venivano stabilite politiche di prevenzione da attuarsi presso i consultori familiari: era anche ammessa la possibilità di non operare per il medico che avesse sollevato obiezione di coscienza. Contro questa legge vennero avviate tre raccolte di firme per indire altrettanti referendum: una da parte dei Radicali (che ne chiedevano una modifica in senso ancor più ampio), e due da parte del cattolico Movimento per la Vita (una per un’abrogazione “minimale”, una per l’abrogazione totale). Quest’ultimo sarà poi dichiarato inammissibile dalla Corte Costituzionale. Il 17/18 maggio 1981 l'Italia votò, in un clima reso incandescente dal recente attentato a Giovanni Paolo II: la proposta cattolica venne bocciata a schiacciante maggioranza (68 per cento), quella radicale anche (88 per cento).