Mobbing.

Mobbing. Una lenta discesa all'Inferno. (1)


Una lenta discesa all'Inferno. (1)Quando la salute ti fa perdere il lavoro, e il lavoro ti distrugge la saluteUN INIZIO PROMETTENTEIniziai a lavorare per ... srl nel giugno del 2006. Provenivo da un'esperienza annuale in un altro noto call center di Milano, il che mi permise di poter essere assunto sulla parola, dopo un  breve colloquio dove mi si offrì uno stipendio fisso accompagnato da provvigioni di sicuro interesse. Assunto come Teleseller, quasi subito dimostrai le mie doti di abile venditore, confermando al nuovo titolare ciò che alcuni conoscenti gli avevano fatto presente sul mio conto.Nel giro di qualche mese, io e altri colleghi, arrivati con me dalla stessa azienda, moltiplicammo le vendite, incrementando così il fatturato aziendale.A dicembre 2006, il nuovo titolare propose un progetto interessante ai primi 3 venditori dell'azienda. Tra questi c'ero io.TANTI SACRIFICI PER UN OBIETTIVO: L'ASSUNZIONEIl progetto aveva la durata di 7 mesi, durante i quali avremo dovuto avere come unico obiettivo l'aumento delle vendite e la crescita dell'azienda. Noi tre, da quel momento, saremmo stati non solo membri del gruppo dirigenziale, ma veri manager, responsabili ciascuno di una propria area. A me fu affidata l'intera area delle vendite interne e del call center.Il nostro unico e vero obiettivo era comunque l'assunzione a tempo indeterminato, con la possibilità di guadagnare direttamente dai pezzi venduti dalle varie strutture.I mesi passavano e le vendite aumentavano sempre più, quasi raddoppiando il fatturato mese per mese. Dopo sette lunghi mesi di sacrifici, orari infernali e interminabili serate nel piccolo ufficio, arrivammo alla tanto aspirata assunzione.Il 21 settembre ricevetti la lettera d'impegno assunzione con la mansione di "Supporto Organizzativo Reparto Vendite Terzo Livello", per 1446,88 € suddivisi in 14 mensilità.Il 1 ottobre 2006 fui assunto.APPENA ASSUNTO, GIÀ MI TAGLIANO LO STIPENDIOPoco prima, però, il nostro titolare era arrivato a un punto di rottura col partner principale e tutto era cambiato. La struttura aziendale non aveva più bisogno del call center, ma puntava sulla rete commerciale esterna. L'azienda si trasferì; nello stabile vicino, dieci volte più grande del primo, e lì iniziarono i primi problemi.Improvvisamente si mise in discussione tutto il mio operato. Da quel momento, il mio stipendio subì un drastico taglio: mi trovai solo con il fisso promesso e non più con la parte variabile costituita da provvigioni. Iniziò una sempre più pesante pressione psicologica, fatta di piccoli ma quotidiani rimproveri su cose apparentemente di poca importanza, con l'unico effetto di abbattermi irrimediabilmente portandomi ad una crescente crisi emotiva.CHIEDO IL GIUSTO, PERDO LE MIE MANSIONIIl mio ruolo REALE divenne Assistente alle vendite e Trainer, mi occupavo cioè della formazione sul campo. Dopo un mese circa, anche se svolgevo quel ruolo nel migliore dei modi (ottenendo ottimi risultati di vendite dagli impiegati formati da me, ma soprattutto personali), dopo la mia richiesta della parte di stipendio mancante mi vennero tolte quelle mansioni.La motivazione ufficiale fu che il mio ruolo rischiava di compromettere il rapporto tra i venditori e il responsabile (il mio collega). Motivazioni che rifiutai categoricamente e non riuscii a capire.In quel momento ero l'unica figura aziendale che conosceva alla perfezione i molteplici piani tariffari del nuovo partner commerciale; per questo, pian piano ero diventato il punto di riferimento delle risorse commerciali, cogliendo per primo le loro difficoltà, alleviando i primi malumori nei confronti di un'azienda sempre più esigente, guadagnandomi quella leadership e rispetto più del loro capo.Mi si richiese personalmente di fare un passo indietro, e io lo feci, promettendo di stare più attento a non ledere il ruolo dirigenziale del mio collega, per la mia naturale predisposizione ad essere amichevolmente disponibile con il prossimo.VENGO "PROCESSATO", MA NON POSSO "DIFENDERMI"Nel dicembre del 2007, un incontro tra me e i miei "due" responsabili sfociò in una messa in accusa della mia persona. Come in un severo tribunale d'altri tempi, mi si lamentava una mancanza di proposte.Provavo a ribattere, ma non mi si permetteva di replicare, poiché ogni mia parola veniva sarcasticamente interrotta da obiezioni varie che portavano il discorso su altri binari e li si ricominciava. Addirittura fu citata la mia cadenza sarda, le cui inflessioni impedivano, a detta loro, la facile comprensione dei miei ragionamenti. Pensai: "siamo alla follia".precisando che mai per nessun cliente questa caratteristica dialettale fosse stato un problema. Insieme alla mia incredulità, lentamente prendeva corpo un'insicurezza verbale ed emotiva che mi portava a rendere più evidente e palpabile la mia rabbia.Dopo ore di duri contrasti, la richiesta più stravagante mi venne fatta con questa premessa:"Poiché il tuo stipendio pesa all'azienda 35 mila euro annui, ti chiedo di restituirmeli in fatturato,  dando il buon esempio ai venditori cioè vendendo più di loro"."Bella idea", dissi, "ma riprendiamo in considerazione le provvigioni promesse, e sopratutto la possibilità di utilizzare, come tutti gli agenti, gli appuntamenti creati dal telemarketing".QUANDO I NUMERI DIVENTANO... UN'OPINIONEL'ufficializzazione di quelle richieste fu la presentazione del mio forecast mensile.Numeri evidentemente buttati giù senza criterio, quantità di pezzi giornalieri talmente folli che i venditori di allora tutti insieme non raggiungevano settimanalmente. Da quel momento in poi iniziai a riconsiderare e mettere in dubbio, oltre che la stabilità mentale del mio capo, anche la mia certezza lavorativa; quei discorsi altro non furono che la giustificazione da parte del titolare per non dovermi retribuire come quanto inizialmente promesso.In realtà di quegli appuntamenti avevo usufruito per qualche settimana e la mia ingenuità - e forse la voglia, per l'ennesima volta, di dimostrare le mie capacità - non mi aveva permesso di prendere in considerazione quel segnale negativo.TRATTATO COME UN PACCO, POI DEMANSIONATOIn quelle settimane fui letteralmente spedito da una parte all'altra dell'hinterland milanese senza mezzo di trasporto, senza rimborsi e senza alcun supporto. Arrivai ad andare, oltre che nelle sperdute periferie milanesi, poco servite da mezzi pubblici, addirittura più volte nelle città vicine, in treno. Rientravo in ufficio a notte quasi fatta. Per la mia vita sociale e privata non avevo più tempo. Iniziai a lamentarmi, con l'unico effetto di un ennesimo demansionamento del mio lavoro.Rientrato dalle ferie natalizie (ferie non permesse in toto come da me richieste), iniziai la mia nuova e sempre improvvisa mansione. I nuovi commerciali non mi si presentavano più. Senza mai avermelo ufficializzato, di fatto non facevo più parte del direttivo aziendale, senza alcuna spiegazione.UN "GRUPPO" DI LAVORO CON UN SOLO MEMBRO: IOIl mio nuovo incarico consisteva nel contattare clienti al telefono, come agli albori della mia esperienza lavorativa milanese. Un evidente e ormai ufficializzato demansionamento, tanto umiliante da compromettere ancora di più la mia salute.Quella mente ormai lucidamente perfida del mio titolare aveva ideato una nuova trappola.Aveva creato un nuovo progetto: un gruppo di lavoro composto da tutti i componenti effettivi dell'azienda: il back office tutto, lui stesso, il responsabile commerciale ed io, per un totale di 6 elementi. Ovviamente, cosa che mi aspettavo, mi resi conto subito che quel numeroso gruppo di lavoro in realtà non esisteva: ero l'unico a dedicare l'intera giornata a quel progetto.Il primo mese, il 90% delle vendite furono le mie. Lo feci notare in varie occasioni, per cui nei breafing di gruppo gli unici rimproveri e insoddisfazioni sulle vendite le subivo personalmente, insieme al solito triste promemoria dei miei costi annuali.DAGLI INCUBI A UNA REALTÀ DA INCUBOTutto ciò, oltre a non farmi dormire la notte, iniziava a crearmi qualche difficoltà nel relazionarmi con il mio titolare in primis, ma anche con il resto dei colleghi.Di notte, quando riuscivo a prendere sonno, mi vedevo da solo al centro di una grande stanza circondata da pareti di vetro; i colleghi che vedevo passare al di là mi guardavano: alcuni ridevano di me; altri, quelli a me più vicini, mi osservavano con evidente compassione. Quando mi svegliavo di soprassalto, era già ora di prepararmi per andare a lavoro.La realtà era molto più triste di quel sogno ricorrente.La mia postazione era una scarna scrivania con un computer, il cui schermo era un televisore vero e proprio: l'unico cimelio nell'ufficio. Stavo dietro una libreria, chiuso in un angolo davanti all'ingresso; l'unico vicino alla porta e quindi obbligato ad aprirla tutte le volte che suonavano il campanello. Anche questa mansione, però, inaspettata era arrivata al suo termine.TROVO IL CORAGGIO DI PROTESTARE, MA...Una mattina, appena rientrato da una pausa-sigaretta, vidi nella mia mail aziendale un sarcastico  messaggio da parte del titolare, inviato a tutto l'ufficio, in cui rendeva tutti partecipi della prematura morte del mio gruppo di lavoro, motivandolo con un negativo primato di vendite, ed altrettanto sarcasticamente invitando lo staff a prendere coscienza del fallimento totale dell'iniziativa.In quel momento,  per la prima volta, non ci vidi più dalla rabbia e dopo qualche minuto di esitazione mi diressi nel suo ufficio. Chiesi spiegazioni, ma lui, con una sottile accenno di sorriso, mi rispose che la mail le spiegazioni le dava tutte, che era meravigliato dalla mia reazione e che non vedeva motivo alcuno per prendermela personalmente.Cercai di spiegare quanto quella "constatazione di morte" del progetto mi avesse profondamente turbato, ricordando che fin dall'inizio, come tutti sapevano, e come sempre recriminavo, quei numeri erano i miei, che per questo motivo avrei preferito essere chiamato in ufficio e magari discutere insieme sui termini della cessazione di quel progetto, facendo presente che anche io ero d'accordo, visto il poco contributo da parte dello staff alla produzione.Lui si alzò in piedi, il volto violaceo, e iniziò a sbraitarmi addosso tutta la sua incredulità per la mia presa di posizione. Stetti male, mi venne un attacco d'asma; accortosi dell'affanno, infierì maggiormente. Disse che era preoccupato per la mia reazione, non per la mia salute ma per la mia agitazione e quindi, secondo lui, la mia "reazione istintivamente violenta nei suoi confronti". (successivamente me lo rinfacciò più volte davanti ai miei colleghi).Mi venne un attacco di pianto improvviso e incontrollabile, in piedi davanti alla sua scrivania: mi sentivo fragile e impotente. Lui si sedette e chinò la testa verso le sue scartoffie, invitandomi ad uscire fuori e prendere un po' d'aria.DIMISSIONI "VOLONTARIE" CHE NON VORREI PROPRIO DAREIl 3 aprile del 2008, dopo avermi cambiato mansione più volte e sempre improvvisamente, mi vennero chieste "volontarie" dimissioni. Le motivazioni erano varie e confuse, in primis "per cessare le continue pressioni psicologiche nei miei confronti", ammettendo di aver esagerato nel pretendere mensilmente obiettivi più alti rispetto ai venditori. Altri motivi erano una sorta di riordino aziendale (in quel momento, a detta del titolare, uno stipendio a tempo indeterminato era un peso insostenibile per le casse dell'azienda) e la necessità di un venditore esperto, vista la difficoltà nel reperirne dei nuovi.In quel momento mi crollò il mondo addosso. Tutti i miei progetti si spensero in un incontro di 5 minuti col Capo, in cui, dopo la richiesta, mi fu consegnato un normale mandato di agenzia da firmare seduta stante: un contratto di sole provvigioni senza tutte le tutele e la sicurezza economica che fino a quel momento pensavo di avere.La mia assunzione era arrivata dopo un anno di sacrifici, con una media di lavoro giornaliero di 12/13 ore senza alcun compenso aggiuntivo, una conquista alla quale in nessun modo avrei voluto rinunciare. Pretesi, in lacrime, di poterci pensare per qualche giorno, almeno per leggere il nuovo contratto e solo dopo molta insistenza mi fu accordato.IL COLLASSO... NON SOLO METAFORICAMENTENonostante quell'assurda situazione, continuai a lavorare, cercando invano di non pensarci almeno in ufficio. Ciò comportò un carico di stress e ansia, seguito da atteggiamenti emotivi che riuscii a gestire con varie difficoltà nei rapporti interpersonali e lavorativi e che mi impedirono per settimane di dormire; inoltre, cosa che mi preoccupò ancor di più, una nausea continua mi bloccò ogni stimolo a mangiare, se non per rimettere dopo qualche minuto. Da quel momento subentrarono una serie di difficoltà fisiche e psicologiche, che improvvisamente sfociarono in un collasso. Quel giorno, mentre mi dirigevo da un cliente, persi i sensi per strada. Dopo aver passato l'intera giornata in ospedale e aver eseguito tutti gli esami di routine mi dimisero con una prognosi di severo riposo, confermata anche dal mio medico con una settimana di malattia. Avvisato il mio capo dopo essere uscito dall'ospedale, questi esordi con la richiesta di vederci in ufficio per concludere il nostro discorso interrotto (le dimissioni). Mi rifiutai categoricamente e senza dare molte spiegazioni chiusi il telefono.IN UFFICIO, SENZA SCRIVANIA NÈ PC Rientrato in ufficio, la settimana seguente fui accolto dal mio capo e dal mio responsabile molto freddamente, come se quella settimana fosse stata un furto da parte mia nei confronti delle casse aziendali e non un diritto sancito dal mio contratto. Non mi permisero di utilizzare né la mia scrivania né il mio computer. Unica priorità in prima mattina era definire il mio nuovo contratto "non contratto". Quel giorno ci fu formazione aziendale per i commerciali, ma a me non fu permesso assistervi se non dopo aver parlato col capo. Ero tremendamente impaurito, pensavo quello fosse il mio ultimo giorno di lavoro. Comunque, mi fu fatta la stessa richiesta di dimissioni volontarie e anche quella volta la risposta da parte mia fu un no. Avevo ancora bisogno di tempo. Il capo allora mi propose di andare a casa e pensarci tutto il giorno per poi l'indomani dare una risposta definitiva. Uscii dall'ufficio e mi diressi dritto alla sede del sindacato. Avevo bisogno di informazioni e forse di altro. Lì mi diedero il consiglio di fare causa e andare in malattia, anche perché, secondo la psicologa, avevo bisogno di tranquillità e anche di qualche seduta..............continua