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Post n°11 pubblicato il 09 Ottobre 2008 da gianlucagian69
 

“Noi siamo un colloquio” significa che non si dà diagnosi e cura se si trascura quel tratto specifico dell'uomo (che la psicopatologia a indirizzo fenomenologico non si stanca di ribadire) che è quello di essere in perenne comunicazione con sé e con gli altri, per cui in ogni dialogo, in ogni colloquio siamo aperti al mondo degli altri e al nostro mondo interiore nella loro continua e dialettica correlazione.

"Quando siamo lambiti o sommersi dalla tristezza, che è il nocciolo segreto di ogni depressione, il dialogo con la nostra interiorità continua, ma quello con il mondo degli altri si attenua e si smorza, fino a inaridirsi e a perdersi nella solitudine ancora virtualmente aperta, del resto, a qualche scheggia dialogica e colloquiale". Chiudere quest'apertura con diagnosi "oggettive" e con cure esclusivamente farmacologiche, significa spegnere non solo il colloquio con gli altri, ma anche il colloquio con se stessi, svuotandolo di ogni significato e inaridendolo in un deserto dove nessuno più chiama e il silenzio si fa assordante. Senza colloquio c'è il misconoscimento della soggettività e di quel che si muove nei suoi abissi. E certamente non è possibile restaurare la soggettività, sempre cercata e sempre perduta, con pratiche terapeutiche che non hanno in vista il soggetto, ma solo il sintomo e il disturbo sociale che arreca. Sin-tomo è parola greca che significa "accadere insieme". Insieme al sintomo accade un vissuto soggettivo che la psicopatologia cerca di "comprendere" (in senso jaspersiano) mentre la psichiatria a orientamento naturalistico cerca di "spiegare" con il metodo della scienza e della natura, ottenendo come risultato quello che Jaspers scrive nella sua Psicopatologia generale: "È possibile spiegare qualcosa senza comprenderlo", perché la "spiegazione" prescinde dalla soggettività a cui la "comprensione" si rivolge. Ma per questo occorre "in relazione", "essere in dialogo" anche se, come già scriveva Kafka: "Prescrivere ricette è facile, parlare con la gente è molto più difficile".

(…)

"Non essere in colloquio", e come dice Hölderlin "non potersi ascoltare l'un l'altro". Con l'avvertenza che il poter ascoltare non è una conseguenza che deriva dal parlare insieme, ma ne è piuttosto il presupposto.

Umberto Galimberti, recensione al libro Noi siamo un colloquio di E. Borgna, “la Repubblica”, 1999.

 

L'essere dell'uomo si fonda nel linguaggio; ma questo accade autenticamente solo nel colloquio. (…) Ma che cosa significa allora un "colloquio"? Evidentemente il parlare insieme di qualcosa. in tal modo che il parlare rende possibile l'incontro. Ma Hölderlin dice: "da quando siamo un colloquio e possiamo ascoltarci l'un l'altro". Il poter ascoltare non è una conseguenza che derivi dal parlare insieme, ma ne è piuttosto, al contrario, il presupposto. Ma anche il poter ascoltare è in sé a sua volta orientato in relazione alla possibilità della parola e di essa ha bisogno. Poter discorrere e poter ascoltare sono cooriginari. Noi siamo un colloquio, e questo vuol dire: possiamo ascoltarci l'un l'altro. (…) Ma l'unità di un colloquio consiste nel fatto che di volta in volta nella parola essenziale è, manifesto quell'uno e medesimo su cui ci troviamo uniti, sul fondamento del quale siamo uniti e siamo quindi autenticamente noi stessi. Il colloquio, con la sua unità, sorregge il nostro esserci.

Martin Heidegger, La poesia di Hölderlin, a cura di L. Amoroso, Adelphi, Milano, 1988.

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