Universo persona

IL PEDAGOGISTA CLINICO E L'INTERVENTO "DI" GRUPPO


Per comprendere meglio la concezione che sta dietro l’intervento fatto dal pedagogista clinico con il gruppo, è necessario superare un errore di matrice culturale. Il ricorso crescente fatto al concetto di “piccolo gruppo”, infatti, impone la  considerazione dei limiti derivanti dall’uso, non sempre corretto, che si fa del termine associato alla visione del gruppo come “dato”, piuttosto che “divenire”: si perdono di vista le valenze psicologiche e pedagogiche, che sono dimensioni caratterizzanti il gruppo e il suo “essere”, ambiti rilevanti, strettamente attinenti alla soggettività, ai vissuti, ai significati personali, al costituirsi del gruppo nei processi di locomozione, nella costruzione di una storia condivisa e dotata di senso.Una grave disattenzione come questa pone il rischio di ignorare l’esigenza di pensare per “processi” e quindi di considerare un divenire così come il concetto di processo implica, di sottovalutare, o ignorare, la prospettiva di chi fa parte del gruppo, per privilegiare il dato oggettivo, il dover essere, il fare per il fare, l’ottica dell’osservatore esterno, che concentrato sul fare, perde di vista i protagonisti stessi, che danno sostanza e valenza a quel processo.L’ottica del “dover essere” e quindi dell’osservatore esterno orienta a far ricorso al gruppo, ma pone scarsa attenzione alle dinamiche gruppali e ai costituenti psicologici esistenti.Si perde di vista quell’approccio metodologico auspicabile del “saper essere” e del “saper fare”: ci si concentra sull’attività prescelta, realizzata “in” gruppo, ma si perde di vista l’attività “di” gruppo, con un orientamento che diventa “prescrittivo” rispetto a quanto si ritiene di fare e perde di vista la persona, nella sua identità e nel suo vissuto unico, sprecando quell’opportunità che il gruppo avrebbe dato come risorsa aggiuntiva, con uno spreco di tempo e di energia.Nell’ottica dell’osservatore esterno, dunque, il gruppo è un dato, una realtà fenomenica, percettiva o cognitiva, i membri hanno qualcosa oggettivamente in comune (lo stato sociale, un disagio, uno scopo, una qualità ecc…), ma è qualcosa solo formalmente comune, di fatto difficilmente condivisa. Manca l’attenzione alla soggettività e all’intersoggettività nei loro rapporti di interdipendenza e coesione, tipiche del piano esistenziale e fondamentali perché un gruppo abbia realmente una valenza positiva e sia strumento efficace per vivere esperienze significative nel superamento di chiusure e sensi di inadeguatezza.E’ diverso, invece, il significato che il termine gruppo assume secondo il punto di vista soggettivo degli individui che lo compongono: si tratta di considerare la prospettiva di chi ne è parte, cioè il “vissuto soggettivo”. “in psicologia il gruppo esiste nella misura e nei modi in cui viene vissuto soggettivamente dagli individui che lo compongono. Il gruppo funziona da gruppo psicologico quando i suoi membri vivono il rapporto con gli altri individui non singolarmente (relazione interpersonale) ma collettivamente (relazione sociale). Questa situazione di vissuto collettivo promuove tutta una serie di conseguenze che si manifestano con la presenza di forti tensioni emotive, cui è connesso il sentimento di appartenenza”. (Spaltro)Il piccolo gruppo, pertanto, si caratterizza per essere di tipo psicologico e per il suo divenire, non è un “a-priori”, ma esiste in funzione delle dinamiche che ne caratterizzano la vita e delle dinamiche soggettive e intersoggettive che in esso si attivano e hanno ricaduta sulle azioni intraprese.A definire la qualità delle relazioni sociali, non sono tanto le intenzioni o i contenuti, quanto il clima relazionale, che favorisce “l’implicazione dei membri del gruppo”: questa è la conclusione cui giungono molti studi a riguardo, condotti da ricercatori di diversa estrazione e a tale scopo le interazioni sono da ritenersi l’ambito di controllo del passaggio dai meccanismi sociali ai meccanismi psichici e viceversa.Nella partecipazione attiva, nella possibilità di proporsi come risorsa e nel porsi, nel contempo, in atteggiamento di accoglimento dell’altro, viene coinvolta l’identità dei soggetti, mettendo in gioco le dimensioni del Self, in un quadro di reciprocità che comprende, insieme, la continua costruzione/ricostruzione dell’immagine di sé e del gruppo. Andando più in profondità, tuttavia, la partecipazione attiva è possibile fattivamente quando il gruppo ha prodotto un clima di relazioni e aspettative tale che ciascuno non avverta il rischio di esporsi, di considerare una sconfitta l’eventuale accordo con le azioni intraprese dagli altri.Nel rapportarci agli altri, infatti, non incidono soltanto le intenzioni, i propositi o le posizioni ideologiche e valoriali, ma un ruolo di notevole importanza viene assunto dalle emozioni, dall’immagine che la persona ha di se stessa come individuo e in relazione agli altri, l’autostima o la preoccupazione di non essere all’altezza della situazione, il timore di “perdere la faccia”: ci si riferisce in tali casi alle dinamiche relative all’identità (IO) personale e sociale. Al pedagogista clinico non sfugge che ogni individuo ha un’evoluzione propria tale da determinare una maturazione individuale e da tradursi in caratteristiche fisiche, psichiche e sensoriali proprie, esperienze affettive e meccanismi inconsci diversi, che vanno ad incidere nel rapporto con gli altri. Tra questi ultimi, non si può sottovalutare il timore di essere giudicati, che si manifesta in particolare in presenza di soggetti che si ritengono in grado di valutare, perché sembra modificare le prestazioni della persona nel gruppo. Tale fattore di rischio è connesso sia a dimensioni di tipo oggettivo, come ad esempio la complessità del compito, sia a fattori di natura intersoggettiva e gruppale quale il clima relazionale. Queste difficoltà sono ampiamente superate dall’approccio pedagogico-clinico, in quanto le tecniche utilizzate non sono invasive, non richiedono competenze di alcun genere e, soprattutto non sono soggette a valutazioni di alcun tipo.In conclusione, se si assume quanto  detto finora come premessa, si deduce che, perché si possa operare con attività “di” gruppo e non semplicemente “in” gruppo, come molto spesso avviene, è necessario che si creino determinate condizioni e dinamiche, la cui conoscenza non sfugge alla pedagogia clinica, sia nei presupposti metodologici che nelle modalità applicative degli stessi. Intervenendo con tali accortezze si possono evitare malintesi e illusioni, al fine di raggiungere la finalità di un reale aiuto alla persona.