Universo persona

EMOZIONI


   
 
 
  
  
 
 
 
 
  
  
  
Tra quelle lette, faccio mia la definizione di I. Filliozat che, partendo dall’analisi etimologica della parola “e-mozione”, ce la descrive come un “movimento da-verso”, un impulso che nasce dentro di noi ed è indirizzato a tutto ciò che ci circonda, una sequenza di eventi che ci mette in contatto con noi stessi e in relazione con il mondo esterno. L’emozione, qualunque sia la sua natura, è suscitata da uno stimolo (ricordo, pensiero,evento agito o subito …) ed è più rapida di un qualsiasi percorso razionale nel guidarci su ciò che amiamo e ciò che respingiamo: importante al pari nella vita intrapsichica e nei rapporti interpersonali, ci fa sentire vicini o distanti dagli altri. La teoria principale di rifermento ad uso del Pedagogista clinico è di R. Plutchik, che parlò di emozioni, suddividendole in primarie e secondarie, catalogando nella prima specie aspettativa, gioia, fiducia, paura, sorpresa, tristezza, disgusto e rabbia, nella seconda specie i sentimenti più complessi. Non mi soffermo qui su questi approfondimenti teorici, in quanto la mia analisi parte dalla constatazione di quanto siamo abituati ad enfatizzare i processi cognitivi a discapito della sfera emozionale, tanto da ritenere, con una propensione radicata nei secoli, che ragione e sentimento siano opposti. Poco ci accorgiamo di quanto le nostre emozioni impegnino la vita mentale, di come filtrino la nostra interiorità ed esteriorità e della loro utilità nel segnalare gli avvenimenti importanti per l’individuo, a fronte dei quali porre in atto comportamenti idonei alla gestione. Esse sono chiamate in causa anche nei processi organizzativi della memoria, posto che quando richiamiamo alla mente un’esperienza o un ricordo, non evochiamo l’immagine originale, ma una sua ricostruzione. Ancor più, le emozioni sembrano rendere ragione dell’universalità tra gli uomini, infatti, al di là delle diversità di linguaggio e cultura, si manifestano con stessi segnali somatici e identiche sensazioni fisiologiche. E’ opportuno precisare che emozioni e sentimenti sono strettamente collegati, ma le prime sono biologiche e i secondi delle elaborazioni, dette secondarie, in quanto passano dalla mente. Tralasciando le reazioni piacevoli, di cui pare superfluo tessere la validità, perché accettate da tutti per quel loro indiscusso potere di conciliarci con l’universo, si può brevemente delineare l’utilità di tutte le altre emozioni, quelle dette “negative” e così: la tristezza produce un movimento di introspezione, ci permette di metterci in discussione, di sostare in intimità con noi stessi e, benché non sia certo piacevole, va vissuta, sfogata nel pianto se serve, consentendo di fare un bilancio; la rabbia è liberatoria, permette di esternare il proprio disappunto, sorge per mantenere la propria integrità, se si è vittime di ingiustizia e frustrazione e, ove non sia di sopraffazione, risponde al naturale bisogno di affermazione di sé e di difesa dei propri diritti; la paura acuisce i sensi, pone il cervello in massima allerta, disponendo il soggetto ad agire di fronte ad un pericolo reale; il disgusto provoca l’allontanamento da quanto non corrisponde alla nostra realtà, difendendoci da inconvenienti spiacevoli. Educare ed esprimere le emozioni autentiche è essenziale per sentirsi liberi da quei sentimenti che soffocano o feriscono.Fu significativo l’invito di Goleman ad armonizzare ragione e sentimento (esprit de geometrie + esprit de finesse, direbbe Pascal, come ci ha ricordato filosdiretto?), parlando di un quoziente emotivo (QE) da sostituire al quoziente intellettivo (QI), frutto di quella misurazione dell’intelligenza  formulata da Binet e Simon per primi, attraverso il famoso test del 1905. Il QI introdusse oltre che una presunta misurazione scientifica delle facoltà mentali, una sottesa concezione che le riduce a competenze verbali e logico-matematiche, per molti in ultima analisi assimilabili a conformismo sociale. “L’intelligenza del cuore”, espressione coniata da alcuni, servì a porre in evidenza non ingenuità e incoscienza nell’affrontare la vita, quanto  intelligenza del “saper fare” e “saper essere”, ovvero quella capacità di rimanere in contatto con le motivazioni profonde del nostro essere e gli aspetti più veri dell’umano sentire. Anche Gardner, teorizzando l’esistenza di intelligenze molteplici, parlò di un’ “intelligenza interpersonale” e un’ “intelligenza intrapersonale”. Le sfide poste dall’autonoma gestione delle istituzioni sociali danno ragione della necessità di competenze relazionali  e pongono un’urgenza educativa in tale direzione. La managerialità, ad esempio, si è rivelata insoddisfacente se accanto a titoli di studio e quoziente intellettivo, chi dirige non unisce un’altrettanta capacità di leadership, declinabile in una conoscenza di sé per un'efficace gestione delle proprie potenzialità e una comprensione dei comportamenti altrui, per essere in grado di lavorare con gli altri in modo collaborativo ed efficace.