GIURIDICO

SCIA prevista dal decreto legge nr. 78/2010


GROSSI DUBBI SULLA NUOVA SCIA Vi sono sostanziali motivi per ritenere che la normativa introdotta in sede di conversione del D.L. 31 maggio 2010 n.78, avvenuta con legge n.122/2010, non sia applicabile alla materia edilizia. Nonostante la diversa paventata posizione ministeriale. Prima della legge urbanistica del 1942, ritenuta una legge quadro esemplare, per “murare” si provvedeva sulla base dei regolamenti di ornato, approvati dai consigli comunali secondo criteri ambientali. La legge urbanistica introdusse la licenza edilizia per poter costruire; successivamente la legge introdusse la concessione edilizia ed, a questo riguardo, si parlò di un diritto primario pubblico sulla proprietà da mettere in relazione alle scelte pubbliche sulla classificazione dei beni, infine si parlò di permesso a costruire (dunque un “licere”, un “concedere” e un “permittere”). Queste definizioni, sulla base dei criteri interpretativi di cui all’art. 12 della legge in generale annessa al Codice civile, si ritiene di poterle interpretare secondo la volontà del legislatore. Si sostiene, a giusta ragione, che nello sviluppo del pensiero giuridico relativo anche al “nomen” dell’atto con il quale si dispone l’accoglimento di una domanda diretta ad ottenere la possibilità di dare corso ad una costruzione edilizia, sia da rinvenire lo “spirito” di una tendenza di spostare l’interesse pubblico verso il diritto privato. La prova di questa tesi sarebbe data dalle cosiddette deroghe edilizie, sulla base delle quali: a) per alcune opere edilizie, ormai soggette a complesse valutazioni da parte di più organi statali e regionali, ed anche, in grado di gerarchia propria, dai Comuni è sufficiente la cosiddetta “denuncia d’inizio di attività”, in acronimo DIA. Indubbiamente uno strumento giuridico specialmente assunto per l’edilizia, infatti, per legge, giurisprudenza e dottrina, esso non può essere direttamente coinvolto da ogni altra tipologia di DIA, ancorché compreso nella più generale intuizione del “benessere sociale derivante dalla semplificazione burocratica”; b) per alcune altre opere edilizie, che hanno avuto originario riscontro nel “de minimis”, ovvero tinteggiature, piccole manutenzioni, adeguamenti igienico-sanitari, non è richiesta la DIA, e la tendenza è nella direzione di ampliare questa fascia di modeste opere. Essendo la DIA e l’autodeterminazione diretta istituti e figure giuridici preordinati alla semplificazione, evidentemente, in termini di consapevole deroga, rimane pienamente efficace il “permesso di costruzione”. A questo punto, l’operatore giuridico si chiederà “il perché” di questa elaborazione storica, in quanto dalla stessa non deriverebbe alcun nuovo problema. Alla suddetta domanda si risponde che dal D.L. n. 78/2010, come convertito in legge n.122/2010, emerge, fra l’altro, la modifica dell’art. 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241, all’ordine della “Segnalazione certificata d’inizio di attività”, che, ovviamente, sopravviene alla “Denuncia d’inizio di attività”, non in via generale, ma per determinati atti che, con sottile tecnica, vengono individuati, in modo da non ridisciplinare gli atti che non risultano essere compresi nella elencazione. In questo contesto la normativa contenuta nel T.U. in materia edilizia, approvato con il D.P.R. n. 380/2001, sembra assumere carattere speciale rispetto al nuovo istituto della SCIA previsto dall’emendamento al D.L. n. 78/2010. Depongono a favore della specialità della DIA in materia edilizia di cui all’art. 23 del citato D.P.R. n. 380, le seguenti considerazioni: - il fatto che il “nuovo” art. 19 della legge n. 241/1990 esclude dal suo ambito di applicazione quegli atti per i quali “non sia previsto alcun limite o contingente complessivo o specifici strumenti di programmazione settoriale”. La DIA edilizia, come recita l’art. 23, è corredata dalla relazione di un progettista che asseveri la conformità delle opere agli strumenti urbanistici approvati e non sia in contrasto con quelli adottati e con i regolamenti edilizi vigenti. Tale espressa previsione riconduce l’attività in esame nell’ambito della conformità agli strumenti specifici di programmazione dello sviluppo del territorio cui sembra fare riferimento il “nuovo” art. 19 della legge n. 241; - ancora, il comma 2 dell’art. 19 dispone che “l’attività oggetto della segnalazione può essere iniziata dalla data di presentazione della segnalazione all’autorità competente”. Di tenore diverso è il primo comma dell’art. 23 del D.P.R. n. 380 che prescrive l’obbligo di presentare la denuncia “almeno trenta giorni prima dell’effettivo inizio dei lavori”. Qualora fosse consentito l’inizio dei lavori dalla data di presentazione della segnalazione, l’Amministrazione si potrebbe trovare di fronte a situazioni di compromissione del territorio per il cui ripristino occorrerebbe affrontare procedimenti lunghi, complessi e costosi; - inoltre una specifica disciplina semplificativa, oggetto di ulteriore intervento migliorativo da parte delle regioni, è stata già introdotta eliminando vincoli procedurali, in materia assoluta o parziale a determinate attività edilizie come prevede l’art. 5 del D.L. n. 40/2010 convertito nella legge n. 73. L’intenzione del legislatore con la riscrittura dell’art. 19 appare, invece, rivolta ad assicurare una completa attuazione della “direttiva servizi” recepita nel D.Lgs. n. 29/2010, fornendo maggiore valenza al principio della legge delega n. 88/2009 ed in particolare all’art. 41, comma 1, lett. e), per il quale la dichiarazione di inizio attività di servizi deve rappresentare la regola generale, salvo che motivate esigenze impongano il rilascio di un atto esplicito. Si ritiene quanto sopra nonostante una paventata posizione ministeriale che intenderebbe estendere l’applicazione della Scia anche alla materia urbanistica. In particolare, si evidenzia che l’ingresso di una norma rivolta alla “tutela della concorrenza” deve certamente incidere sui settori produttivi (industriale, agricolo e terziario), ivi comprese le attività di servizi e distributive, ma non può attrarre nel suo ambito applicativo le attività edilizie per le quali occorre invece considerare altri profili (tutela del territorio, ambiente, paesaggio ed urbanistica in generale), oltre che un riparto delle competenze nel quale è preminente la legislazione regionale. Vi sono pertanto sostanziali motivi per non avallare l’interpretazione ministeriale che, oltretutto non risulta favorire le attività ed il ruolo dei Comuni nell’ambito urbanistico. Mario Agnoli Luigi Cosco Riccardo Narducci