Carlo Molinaro

Il tragico in Guido Catalano


IL TRAGICO IN GUIDO CATALANO(breve quasi saggio critico - quasi, però)Secondo me Guido Catalano è - ormai si può dire - un maestro nella poesia che sa unire il tragico al comico, o meglio esprimere il tragico attraverso il comico - il comico è uno dei modi più efficaci per esprimere il tragico - il tragico che, nella sua essenza pura, è sempre stato e sempre sarà indicibile, perché non fa parte di noi ma ci contiene [non è «nella» vita, è «la» vita] e nessuno può descrivere davvero un qualcosa da cui è contenuto. Solo l'arte, che non descrive ma evoca, può in qualche modo avvicinarsi al tragico - e il comico è, ripeto, un buon modo.Durante i readings di Catalano (readings come li chiama lui, marcando la esse finale con la stessa goduriosa buzzurrìa con cui Guccini dice camions quando canta i fichi) la gente ride, ride spesso e molto, e qualche volta la risata evolve in un applauso a scena aperta. Che la gente rida è giusto, non vuol dire che gli ascoltatori siano deficienti: il comico deve far ridere. Il deficiente sono io che rido poco perché deficio di alcune mediazioni fra dolore e ironia, fra realtà e desiderio, fra voragine e volo e fra altre cosette ancora, mediazioni che sono quasi indispensabili per vivere (quasi: infatti in questo momento sono probabilmente comunque vivo, sto pure scrivendo).La domanda che (mi) pongo è quanto passi all'ascoltatore, nella ridente fruizione, del tragico che la poesia contiene. Evidenziare limpidamente il tragico è possibile se non in tutte almeno nel novanta per cento delle poesie di Catalano. È possibile «a me», se non altro - personalizziamo, personalizziamo, sono anch'io un poeta e non un critico professionista (se no magari mi pagherebbero per scrivere saggetti su minchiate). Forse la domanda è stupida: la ricezione della poesia (e dell'arte in genere) si colloca naturalmente su svariati livelli e in svariati modi. A ogni lettore, ascoltatore, osservatore passa qualcosa di diverso (quantitativamente e qualitativamente). Diciamo allora che la stupida domanda è solo uno spunto per far quattro parole sul tragico nella scrittura catalaniana.In alcune poesie l'emersione del tragico è più facile: lo è per esempio in Sempre in buona compagnia, comunque [da La donna che si baciava con i lupi, pag. 107], dove l'urlo disperato dell'uomo alla [inesistente] divinità [che gioca a scopa] esce esplicito, interrompendo il flusso comico in modo spiazzante («non vi siete accorti / della mia / profondissima / infelicità»). Così come lo è in Cose di notte [da Ti amo ma posso spiegarti, pag. 32], dove un climax ascendente di vuoto prepara il potente finale: «la mia solitudine / è una tigre ammaestrata / siamo amici fin da piccini / ci vogliamo bene / giochiamo come bambini / può staccarmi la testa con un morso / in qualsiasi momento». E in poesie più giovanili è chiara la dichiarazione di stile: «son così triste / che mi faccio ridere» (1° settembre, da I cani hanno sempre ragione, terza edizione, pag. 10).Ma anche nelle poesie d'amore che sembrano più scanzonate e forse quasi scherzose il tragico è ben presente. Prendiamo come esempio Ti piacerebbe andare a more? [da Motosega, pag. 7] che è un componimento apparentemente «tutto da ridere». Il tragico è però in agguato nelle risposte che dà la ragazza alle profferte amorose del soggetto.non ti piaccio? / proprio che non m'interessi - la tragicità disperante del disinteresse a priori verso qualcuno (o qualcosa), un disinteresse che precede ed esclude anche qualsiasi valutazione di «mi piace/non mi piace», una porta chiusa senza nemmeno uno sguardo dentro o un pensiero verso che cosa ci potrebbe essere oltre. L'isolamento assoluto, l'invalicabilità del gap che separa persona da persona. Ribadito e confermato pochi versi dopo: mi trovi basso? / no, è che non ti cerco e quindi non ti trovo.Un disinteresse che secondo me rimanda alla morte: è alla morte, precisamente, che «non interessa» nulla del soggetto: lo falcia senza alcun riguardo alla sua voglia di vivere, ai suoi sentimenti, pensieri, desideri, ragioni. È la morte che non ti cerca in quanto persona, ma ti ammassa alla rinfusa nel nulla, polvere di polvere.scusa ma cosa ci fai allora / dentro la mia poesia? - ecco il tragico assoluto del rimanere distante di qualcosa (o qualcuno) che invece ti è entrato dentro, è nella tua poesia, cioè è in te, è dentro te ma ti dice: è un tuo problema / passavo di qui / mi c'hai messa dentro tu. Qui il rimando slitta all'essenza della vita, a tutta la bellezza, alla meraviglia dell'universo, che spontaneamente e necessariamente interiorizzi, eppure ne resti fuori, in lacerante contraddizione. La «straziante meravigliosa bellezza del creato» (Pasolini) che è straziante proprio perché vivendo (morendo) ne scivoli via, così come scivoli via da una ragazza che ti rifiuta - ma è dentro di te, dentro la tua poesia - e quindi scivoli via da un pezzo di te stesso, ti strappi lasciando brandelli d'anima impigliati nella bellezza che fugge (ragazza o nuvola o fiore o cielo stellato o luce o idea che sia).Altro che poesiuola scherzosa, sono cazzi e controcazzi! Ma la bravura (acquisita) e il talento (innato) stanno proprio nel mettere tutto ciò in qualcosa che sembra una poesiuola scherzosa, che letta a un pubblico in una sala fa ridere - giustamente ridere. Non sono in molti a riuscire a fare questo.Ho fatto solo un piccolo esempio, ne potrei fare a decine ma vi annoierei e mi stancherei (sono estremamente pigro) e quindi direi che basta. L'invito può essere a scandagliare in questo senso la poesia di Catalano, alla ricerca della falda di tragico da cui zampilla il comico. Beh, lo faccia chi ne ha voglia, eh! Niente è obbligatorio e ciascuno legge e ascolta come vuole e può e gradisce.