Carlo Molinaro

La lettera al maestro


LA LETTERA AL MAESTROM'è venuto in mente che in seconda elementare - correva l'anno mille novecento sessanta - scrissi una lettera al mio maestro elementare: gliela scrissi a casa, con francobollo e tutto. La mia grafomania ha radici lontanissime. Non è che in quell'epoca remota i maestri dessero in classe l'indirizzo di casa: ma io, piccolo stalker, lo trovai. Una lettera non lunga, di cui ricordo solo le prime parole: «Caro Guido, parliamoci chiaro: non si può andare avanti così». Queste parole le ricordo. Poi credo seguissero lamentele abbastanza generiche su malfunzionamenti della scuola. Non era facile avermi per allievo da bambino, non è mai stato facile avermi in qualsiasi ruolo. Il maestro in classe davanti a tutti mi chiamò e disse: «Mi è arrivata una lettera dal nostro Molinaro: di' un po' ai tuoi compagni, Molinaro, che cosa mi hai scritto». (All'epoca ci si chiamava solo per cognome, ci chiamavamo per cognome anche fra noi bambini, di qualche mio compagno non ho mai saputo il nome, per esempio il Vailati, lo Zirilli e il Niemen, mai saputo come facessero di nome.) Io mi sentii sprofondare, mai avrei immaginato che il maestro mi chiamasse per quella lettera (non penso mai alle conseguenze delle mie azioni) e balbettai: «Ho scritto... ho scritto "caro signor maestro"...» Ma lui mi corresse: «No, hai scritto "caro Guido"». Non mi punì, ma tutti risero e fu molto umiliante. E finì lì. Non era come oggi: oggi se un bambino di sette anni scrivesse una lettera del genere chiamerebbero i genitori e poi anche gli psicologi, e gli psicologi direbbero che la lettera è un segnale da valutare, e nel loro abbastanza detestabile gergo direbbero forse addirittura che è «una richiesta d'aiuto» (sanno essere più umilianti che un maestro anni Sessanta, gli psicologi di oggi, ma non se ne rendono conto). Il concetto che esprimevo nell'incipit della lettera era abbastanza esplicito: che ci si deve parlare e che non si può andare avanti così; e dire «tu Guido» anziché «lei signor maestro» era una trasgressione (all'epoca) molto grave che voleva forse abbattere una distanza, un muro, ma lo faceva in un modo completamente sbagliato, saltando tutti i passi necessari: e per iscritto, perché sono timido. Insomma, la cosa finì lì. Chissà perché m'è venuto in mente stanotte 'sto fatto. Forse perché mi sono svegliato con la sensazione - più di mezzo secolo dopo - che non si è mai parlato con nessuno e che si è andati avanti così, nel modo (mondo) per me inaccettabile, da allora a oggi e a domani e per sempre - e le distanze e i muri ancora adesso non l'ho mica imparato il modo giusto per provare ad abbatterli. (Certo che ero una testa dura: in quarta il maestro - che profondamente amavo, si sarà capito - fu sostituito da un altro, per motivi burocratici: ma io per tutta la quarta e la quinta, fino alla fine, non scrissi mai sui quaderni il nome del nuovo maestro, scrissi sempre: «Maestro Guido Reis [sostituito]». Al nuovo maestro non faceva piacere ma non ci fu verso: io non m'arresi mai a scrivere pacificamente sui quaderni una realtà diversa da quella che volevo.)