Carlo Molinaro

TRE LIBRI SEGNALATI


Dopodiché, essendo un intellettuale più o meno gemebondo, eccomi a segnalare tre libri. Un libro di poesie di un poeta bosniaco, uscito nel 1999, che trovo molto bello e che quasi nessuno conosce in Italia, un libro di poesiole doppiosensuali di una mia amica che sta a Venezia, uscito pochi giorni fa, e un racconto lungo di una mia amica che sta dalle parti di Savona, che uscirà entro il corrente mese di giugno. Del secondo e del terzo ho scritto la prefazione e nota. Quindi una segnalazione da «semplice» lettore, di un grande poeta recentemente defunto, e due segnalazioni da amico e collaboratore di due autrici che considero valenti. Del libro del poeta bosniaco propongo una poesia (letta a voce molto bene dall’amico Cesare a una festa agreste a Erli, dietro Albenga, il 26 maggio scorso), degli altri due propongo perlappunto la mia prefazione o nota. Ecco dunque qui di seguito le cose.Da Izet Sarajlić, 30 febbraio, San Marco dei Giustiniani, Genova 1999, la poesia a pag. 17Nati nel Ventitré, fucilati nel QuarantadueQuesta sera ameremo per loro.Erano 28.Erano cinquemila e 28.Ce n'erano più di quanto amore ci sia mai stato in una poesia. Ora sarebbero padri.Ora non ci sono più.Noi, che sui marciapiedi di un secolo abbiamo soffertole solitudini di tutti i Robinson del mondo,noi, che siamo sopravvissuti ai carri armati e non abbiamo ucciso nessuno,mia piccola grande,questa sera ameremo per loro.E non chiedere se potevano tornare.E non chiedere se si poteva tornare indietro mentre per l'ultima volta, rosso come il comunismo, bruciava l'orizzonte dei loro desideri.Attraverso i loro anni senza amore, trafitto e ritto,è passato l'avvenire dell'amore.Non ci sono stati segreti di erba schiacciata.Non ci sono stati segreti di bluse sbottonate.Non ci sono stati segreti di gigli lasciati cadere dalle mani stremate. C'erano le notti,c'era il filo spinato,c'era il cielo che si guarda per l'ultima volta,c'erano i treni che tornano vuoti e squallidi,c'erano i treni e i papaveri,e con essi, con i tristi papaveri di un'estate da soldati,con un magnifico senso di imitazione, si batteva il loro sangue.E intanto sui Kalemegdan e sui Nevskij Prospekt,sui Boulevards del Sud e i Quais degli Addii,sui Campi dei Fiori e sui Ponti Mirabeau,meravigliose anche quando non amano,attendevano le Anne, le Zoje, le Jeanettes.Attendevano il ritorno dei soldati.Se non fossero tornati,avrebbero dato ai ragazzi le loro bianche spalle mai abbracciate.Non sono tornati.Sui loro occhi fucilati sono passati i carri armati.Sui loro occhi fucilati.Sulle loro Marsigliesi mai cantate fino in fondo. Sulle loro illusioni crivellate.Ora sarebbero padri.Ora non ci sono più.All'appuntamento d'amore ora attendono come tombe. Mia piccola grande,questa sera ameremo per loro.(1953)Da Clara Vajthó, Poesiole doppiosensuali, Graphe.it Edizioni, Perugia 2007, la mia prefazioneLa prima cosa notevole è che questi piccoli componimenti leggeri, che ruotano su arguti incastri di parole, sono vere poesie: ci trovi lo sguardo attento e meravigliato che scava nelle cose in cerca di senso e di ritmo, e ci trovi anche una storia viva, narrata in sottili trasparenze. La seconda cosa notevole è la voce argentina di un parlare erotico al femminile che risulta assai innovativo: non cade dentro il gorgo ritroso e lamentoso della femmina doverosamente sofferente pure nel sesso (retaggio d’antica sottomissione e mercificazione, camuffata da famiglia e religione), ma neppure si perde all’inseguimento delle espressioni più crude o sguaiate della tradizione erotica maschile, di più collaudata (ma spesso falsa) liberazione. Clara Vajthó mette in versi un eros che assomiglia, nella sua limpidezza, al gioco dei bambini: serio preciso attento, e simultaneamente gioioso stupito lieto. In questo orizzonte le differenze fra ciò che è più lirico e ciò che è più ironico, fra ciò che è più vestito di metafora e ciò che è più nudo e crudo, perdono il carattere di contrapposizione e diventano complementari pennellate a dipingere lo stesso quadro: ventaglio di esistenze quotidiane in un chiaroscuro nitido, scritto in colore amoroso e in musica giocosa. Allora anche espressioni come «apro le gambe», o riferimenti diretti al membro e alla vagina, perdono ogni traccia di volgarità o di tavolo anatomico, e si restituiscono, come è giusto, alla piena naturalezza dell’essere, la stessa a cui appartiene il desiderio che «ronza... dentro il cuore», così come l’amore: «L’amore che hai vissuto / non è tempo perduto / l’amore che hai sognato / è tempo anticipato». Questo sciame di brevi poesie è dunque un gioco (spesso il titolo contiene, in modo più o meno enigmatico, la chiave di lettura dei versi) eppure va oltre: va oltre senza strafare e senza presunzione, proprio come il bambino, che quando gioca a fare il pirata della Malesia è pirata ed è in Malesia, anche se sa benissimo che fra cinque minuti salirà le scale e si laverà le mani per sedersi a cena con mamma e papà.Da Chiara Borghi, Il tempo è scaduto, Edizioni Joker, Novi Ligure (AL) 2007, la mia notaIl primo libro di Chiara Borghi, Drake’s Heaven, del 2001, è stato definito fra l’altro “romanzo di formazione” e “monografia sulla psiche giovanile”. Questo suo nuovo lavoro, Il tempo è scaduto, apre uno sguardo più ampio sulla vita osservata nel suo aspetto individuale e, insieme, in quello sociale, inscindibile. C’è ancora un riferimento generazionale, ma la generazione di cui si parla sembra via via ampliarsi fino ad abbracciare quasi tutti i viventi del momento storico contemporaneo: i più anziani, sconfitti, non hanno saggezza da regalare ai giovani, perché la saggezza è stata corrosa e dilapidata dal trionfante materialismo che ha trasformato l’uomo in “produttore e consumatore”, e il senso di vuoto si estende ad accomunare i nati nel dopoguerra, negli anni Cinquanta, e i nati alla fine del Novecento (“secolo breve” oppure, da un altro punto di vista, secolo lunghissimo, separatore di mondi).La riflessione filosofica sull’esistenza resta centrale nel percorso dell’autrice, e talvolta l’intreccio della storia sembra un canovaccio su cui l’importante è tessere immagini e meditazioni. Il protagonista, un uomo sui trent’anni, parla in prima persona, mescolando il presente al passato. La sua vicenda è esile, tutta interiore, non ha nulla di sensazionale. La tragedia si dipana nel suo animo a partire dal suicidio della ragazza amata, dalla perdita di un amore che poteva, forse, disegnare un senso, tracciare una rotta nella vanità del quotidiano – e forse no, forse tutto si sarebbe comunque irrimediabilmente dissolto sotto il peso di una plumbea impossibilità, di un destino pre-scritto.L’uomo si stacca dalla vita a poco a poco con una rassegnazione calma, quasi sconcertante, che sembra averlo accompagnato sempre: da un matrimonio contratto per inerzia a un lavoro accettato per stanchezza, alla noia delle compagnie, fino al lampo d’amore che però lo trova incredulo, inadeguato e infine inetto, incapace di prendere e farsi prendere. L’occasione perduta di vivere davvero apre la porta all’irrompere della morte.C’è forse il nulla della piccola borghesia, che in Occidente sembra aver contagiato più o meno ogni strato sociale, all’origine di questo vuoto: “Anche se il luogo comune recita che bisogna credere e lottare, questo nostro esserci non è vita, non è speranza, non è guerra e non è pace: è solo un crudelissimo lungo addio” – dice l’uomo.Il gesto finale estremo del protagonista del racconto non è un gesto d’amore ma di fuga, la fuga dalla più orribile e più desiderata delle cose, la “vita normale”. All’enunciato del titolo sembra doversi aggiungere un avverbio: il tempo è scaduto finalmente: è scaduto il tempo grigio dove manca il coraggio di versare il sogno nella realtà, dove per vigliaccheria si dichiara l’impossibilità di credere e impegnarsi, dove la disperazione diventa un vizio comodo. In questo senso – e forse al di là della stessa intenzione conscia dell’autrice – il racconto esce dall’intimità di una vicenda sentimentale e proietta sullo schermo il dramma di una generazione (in senso ampio, come dicevo) a cui, nel frastuono incessante di un pandemonio di stimoli altamente tecnologici, il potere tenta di amputare l’organo essenziale del vivere: la ghiandola del sogno. Inceppato il motore del desiderio, l’orizzonte si restringe e il viaggio si chiude. Il tempo è scaduto sì, ma è scaduto di qualità, come un prodotto industriale che si vuol vendere a prezzo troppo basso. Se la vita è un giro in un centro commerciale, morire è meglio. Ma la vita può essere altro? Chiara Borghi parte da un pessimismo predestinato che mi spingo a definire irritante, provocatorio: “ogni persona è una pellicola su cui il tempo e le occasioni imprimono una storia”, fa dire al protagonista nelle prime pagine del libro. Nessun margine di libertà e di scelta, nei riquadri chiusi dei fotogrammi del tempo e delle occasioni? E tuttavia, nello svolgersi della storia, l’amore sembra essere una possibilità reale, un’acqua che lambisce e che potrebbe penetrare. Nel libro precedente Chiara incideva rapporti umani più duri: “o si calpesta o si è calpestati”. Qui c’è invece uno spazio di tenerezza, di commozione. C’è in qualche modo il germe dell’amore stesso (cioè della vittoria della vita sulla morte, mi sia permesso dirlo: l’amore è sempre rivoluzione), ma è un seme che non riesce a radicarsi.Forte è la tensione a liberarsi della prigione individuale: “Naufragare nell’aria come nell’acqua, disperdermi, disintegrarmi, dissolvermi lievemente, in un rarefarsi di cellule” – questa una delle sensazioni che il protagonista del racconto prova quando è invaso dal pensiero della ragazza amata. È in questi lampi che lo stile dell’autrice sale più alto, è qui che il racconto ci dà il meglio. Un racconto che è forse una dichiarazione, un manifesto spirituale, un appello. Ed è anche una domanda.Uscire dalla pasta molle e insidiosa della rinuncia piccoloborghese, riappropriarsi del coraggio e del rischio della vita, è un’illusione o è una possibilità? Il racconto di Chiara Borghi lascia, problematicamente, la questione aperta. E lascia, secondo me, un’ansia di fertilità. È un grido sommesso, che va in cerca di chi ha orecchi per intendere. Ma così, senza apparire, senza retorica. Come un remoto spiraglio.