Carlo Molinaro

Peppino e le differenze


Stasera ho cenato da Peppino, buon ristorante con menù a otto euro e cinquanta centesimi (un primo a scelta, un secondo a scelta, un contorno a scelta, acqua o vino, coperto incluso), che mi sentirei di consigliare a chiunque, ambiente fine e molto pulito e ottima cucina. Tutte le amiche e gli amici che ci ho portato si sono trovati molto bene. Io mi trovo bene anche al Pigaron (che per otto euro netti dà primo, secondo, contorno, frutta o dolce e acqua o vino, coperto incluso), ma su questo vado più cauto, perché ha una cucina più «spessa» e un ambiente più popolar-noncurato: ci si sono trovate bene Antonella, Claudia e Clara, ma Francesco e Malvina no, quindi non so, dipende.Nell’immaginetta del messaggio sono riprodotte comunque tutte le indicazioni per trovarli, a Torino: a sinistra una ricevuta fiscale del Pigaron, a destra un biglietto da visita con mappa di Peppino (cliccare per ingrandire, ovviamente). Non ho percentuali per queste segnalazioni, sono disinteressate. Quando trovo qualcosa di buono mi piace condividerlo con gli altri: un ristorante, un paesaggio, un ufficio postale simpatico, una notizia curiosa, il segreto di una stazioncina, un pensiero, una poesia, a volte persino una donna. So che c’è chi ha un atteggiamento diametralmente opposto, c’è chi nasconde le cose belle che trova come fanno i cani con l’osso; ma il mondo è così, vario.Su questa varietà so meditando. Ci sono gesti che prendono valenze diversissime nelle ottiche e nelle concezioni di persone diverse. Magari un atteggiamento che per me è d’amore, per un altro è di perdita di dignità o d’orgoglio; un atto che per me è d’amicizia, per un altro è di paternalismo o d’esercizio di potere; un discorso che per me è spietato, per un altro è appena giusto e corretto; un taglio che per me è crudele, è considerato da altri una buona soluzione; un ambiente che io trovo sofisticato, per un altro è sobrio; un percorso per me entusiasmante, per un altro è noioso; una storia che per me è fantasmagorica, per un altro è la solita vecchia storia.Lo so che sto semplicemente esemplificando una cosa ovvia: la differenza fra le persone. Ma più che sulla differenza, è sulle conseguenze della differenza che sto meditando. In che modo la qualità e quantità delle differenze può influenzare un amore o un’amicizia, favorendola o, all’opposto, sfavorendola se non addirittura impedendola? C’è una soglia di affinità minima necessaria per dialogare? Pensavo a una cosa successa anche qui sul blog: il messaggio n. 190, che era poi solo una descrizione d’ambiente, ha avuto (grazie anche alla «coraggiosa» esternazione della simpatica Marina – adesso mi pare che una roba così la chiamino outing, un’altra parola per noi assolutamente inutile, di cui nessuno, ma proprio nessuno sentiva il minimo bisogno, e che i mezzi di comunicazione di massa, schiavi della parte peggiore del mondo anglofono, vanno imponendo) un bel numero di commenti, con posizioni anche fortemente contrastanti. Mi domandavo, un po’ sullo scherzoso: ma si può dialogare con uno che ti dice si’ na mignotta?Forse sì, io propenderei per il sì, cercare di dialogare sempre. Qui poi esce un altro discorso, quello degli stili verbali e non solo verbali. A Roma e a Napoli, ma anche a Firenze, io piemontese di voce moderata devo fare uno sforzo per ricordarmi che no, non mi stanno aggredendo, è solo il loro modo di esprimersi, di parlare. Un po’ mi sono abituato. Ma a vent’anni in Toscana soffrivo parecchio, mi sentivo perennemente preso per il culo, non ero abituato a quel continuo mordere che per loro è la normalità. Poi si viaggia, si capisce, si interiorizza, si traduce, ci si adegua. Per me non è stato facile, ancora oggi se sento parlare dei napoletani la mia prima sensazione è che mandino a cagare tutto il mondo. Il tono, qualcosa, non so. Poi elaboro, ma la prima sensazione è quella.Insomma, non è facile con le differenze. Se poi la gente viene ancora da più lontano, ci vuole entusiasmo, buon animo e volontà per capirsi. E spesso a questo giustamente ci applichiamo: ci applichiamo a capire gli africani, gli arabi, gli slavi. Cioè, non proprio tutti noi lo facciamo, ma molti di noi (spero) lo fanno. Ed è bene, è l’unica via per la pace, la comprensione e l’integrazione. Però, e qui concludo la mia meditazione, dobbiamo ricordarci di farlo anche con l’amico, l’amico pure più simile a noi, quando esprime una differenza, magari fastidiosa. Perché tutti, anche concittadini, anche vicini per formazione, anche affini sotto tanti aspetti, anche amici da anni, ogni tanto ci scontriamo su una differenza. Ed è lì che non bisogna incastrarsi, è lì che bisogna capire, sciogliere, andare avanti. Così mi pare, almeno. Altrimenti ci si disperde e alla fine ognuno resta solo.