Carlo Molinaro

Della solitudine


Di poesia mi sono interessato fin da molto presto, e già a quindici anni mi procuravo libri e libretti fra i più improbabili. Ricordo un fascicoletto di poesie (forse era una piccola antologia) in cui c’era un componimento di uno che si firmava con lo pseudonimo di Prinzhofer. L’ho cercato, recentemente, nell’unico modo in cui ormai pare si facciano le ricerche, e cioè su internet, ma non è venuto fuori nulla. Erano anni lontani (poteva essere il 1968, anno più anno meno), e si vede che Prinzhofer non ha avuto un seguito, e non è arrivato all’era di internet. Se qualcuno ne avesse notizia (o lui stesso: credo fosse un giovane, magari è ancora vivo!), mi faccia sapere. Le sue poesie, per quel che me ne resta nella memoria, non erano eccezionali, ma ce n’era una che aveva, verso la fine, alcuni versi che mi fecero piangere, e che mi sono rimasti dentro. Li cito a memoria, a lontana memoria, quindi certamente non erano proprio uguali a come ve li scrivo. Però quasi. Eccoli: nell’androne grigioil vecchio pensionatoguarda per la centesima volta se c’è postama non c’è postanon ci sarà mai posta Non sono versi sublimi, mi sa; però mi fecero piangere. Io allora (non adesso: allora, a quindici anni) mi vidi in quel vecchio che guardava se c’era posta, e la posta non c’era, nessuno gli scriveva. Non credo che sia per reazione a quella poesia se dopo sono diventato un vero grafomane, intessendo centinaia di corrispondenze epistolari. Ho avuto un momento di estrema felicità intorno ai quaranta-quarantacinque anni, quando mi arrivavano sei o sette lettere al giorno (e io trovavo il tempo di rispondere a tutte – questo è uno dei motivi forse della mia non carriera lavorativa, ma chi se ne frega!); la felicità era corroborata anche, occorre dirlo, dal fatto che con cinque o sei delle mittenti facevo l’amore, e con altre cinque o sei speravo di farlo, insomma era un momento di grande vivacità, di entusiasmo, di relazioni scintillanti. Di cui le lettere (su bella carta, in genere, scritte a penna, con disegni, arabeschi, giochi, fotografie, oggettini, piumette, foglie secche, fiori schiacciati, insomma tutto quel che ci vuole) erano simbolo, contorno e cornice, oltre che memoria (le conservo ancora tutte).Adesso sono passati altri dieci anni e le lettere hanno avuto un crollo verticale, è tanto se me ne arrivano tre o quattro al mese. Per il resto, bollette e pubblicità. Sì, la colpa è in parte anche di questo cazzo di internet, la posta elettronica, che non dà certo la stessa soddisfazione, e anzi, con i suoi tempi troppo rapidi, quasi nevrotizzanti, è spesso fonte di malintesi. Ma non è solo quello. Anche il numero delle donne con cui faccio l’amore (e di quelle con cui spero – ma spero poco – di farlo) è drasticamente sceso. Certo, non devo comunque lamentarmi. Ho due relazioni amorose belle, e due principali innamoramenti non ricambiati (e ho il privilegio di poterlo scrivere persino qui, perché non c’è nulla di nascosto, ognuna sa delle altre, io di bugie nella mia vita non ne voglio mai più). Ma non è neppure questo il punto. Queste erano solo delle premesse.Se dopo quarant’anni mi sono tornati in mente i versi di Prinzhofer e sono tornato a commuovermi su quei versi, una ragione ci sarà. Sì, la figura del vecchio solitario pensionato è più vicina cronologicamente, adesso. Ma non è neppure quello il punto, neppure quello.La solitudine. Qualcosa che uno ha dentro, a 14 come a 54 anni, uguale.Io a volte faccio un po’ il duro. Me ne accorgo. Faccio il duro per vari motivi. Perché detesto il comportamento opposto, il pietoso appello. Perché temo le reazioni moralistiche (scapestrato! mille donne, alla fine è ovvio che resti da solo! a la ramera y al juglar a la vejez les viene el mal! [questo è un antipatico proverbio spagnolo che si può tradurre all’incirca così: «la puttana e il poeta la pagano da vecchi» – sarà un motivo in più della mia fortissima solidarietà con le puttane?]). Perché ho fastidio degli psicologi dilettanti che mi spiegano tutti i motivi e tutto quello che dovrei fare. E poi anche per un po’ di virile orgoglio, si capisce.Faccio un po’ il duro anche perché mi rendo conto che alcuni cinquantaquattrenni sentendo un loro coetaneo che ha da piangere pur avendo due amori e due innamoramenti, sarebbero tentati di imbracciare un fucile e sparargli. Che vuoi di più dalla vita, maledetto? Io sono trent’anni che trombo solo quel carciofo di mia moglie, che già un anno dopo il matrimonio non mi piaceva più!Qui mettiamoci un sorriso. Eccolo: :-) Usiamo l’emoticon. Ma poi andiamo avanti.Perché, duro o non duro, lamentarsi o non lamentarsi, la solitudine esiste, è un mostriciattolo che gira dentro, e può farti piangere a 15 come a 54 anni sugli stessi versi (e per di più versicoli di oscuro autore). Oggi la sento mordere forte, eppure stasera forse vedrò un’amica e domani una donna amata che mi ama e anche un bel po’ di amici (al poetry slam a Milano).Confessare «mi sento solo» è più dura che confessare di avere fatto per un po’ la puttana, come la simpatica Marina ha osato esternare proprio su questo blog pochi giorni fa. Almeno, per me è più dura. Mettere nudo il corpo in un locale, e farselo pure toccare un po’ dagli avventori, scandalizzerà qualche imbecille, ma è niente a confronto di mettere nuda l’anima, esponendola al «toccare» degli altri. Io già sono abituato a farlo attraverso le poesie – ed è qualcosa. Ma in un discorso diretto no, non sono abituato. Nel discorso diretto mi viene da fare un po’ il duro. Negare.Perché la poesia, come diceva credo Camillo Sbarbaro, se è una bella poesia contiene, insieme alla confessione, l’assoluzione. Confesso una cosa orribile, ma leggete che bella poesia: sono assolto. La cosa orribile ha prodotto una gemma. Voi guardate la gemma.Il discorso diretto no. Il discorso diretto resta lì con la sua bruttura, irrisolta. Ci si allontana. Dagli altri e da sé stessi. Forse poi ci si ritrova. O fors / nu nu ne nu rencontreron jamè / paschè la vì / tu sè / l’è tuta pien de solitude (Guido Catalano, La solitude, in Motosega, Edizioni SEEd, Torino 2007, pp. 18-19).Ho attaccato questo discorso sulla solitudine ma non so dove voglio arrivare. È normale che io non lo sappia. Un discorso non serve a niente se sai già dove vuoi arrivare. È non sapendolo che puoi incidentalmente trovare qualcosa.Ma non è detto. Non è detto che trovi qualcosa. Forse la solitudine ha un temporaneo rimedio (quello definitivo non esiste, ne sono ragionevolmente certo) solo nelle poesie. E nei baci. Ma avevo voglia di cominciare il discorso. E l’ho cominciato. Buone cose a voi.Poesie ne scriverò finché me ne verranno. Baci, finché qualcuna me ne darà. E poi, sipario. Come è naturale. Tocca a tutti, mica solo a me.E mi rimetto a fare il duro.