Carlo Molinaro

Briciole


Oggi ho pranzato a casa di un’amica e poi da lì ho preso l’autobus per andare a trovare mia figlia Lucia. Sull’autobus il mio sguardo si è incrociato con quello di una ragazza non bella, ma carica di una strana misteriosa forza che mi ha immediatamente costretto a guardarla. L’ho osservata e mi sono accorto che aveva gli occhi lucidi di pianto. Occhi azzurri con una raggiera di pagliuzze di molti colori diversi. Bionda d’un biondo che solo dopo un po’ ti accorgi che è biondo. Indossava un cappottino nero a doppio petto, due file di bottoni grandi di madreperla grigia. Calze con una fantasia grigioscura e stivali neri. Eppure non aveva l’aspetto di una che si veste di nero – questo è difficile da spiegare. Unghie un po’ lunghe ma non curate ad arte, mani tozze in cui tormentava un telefonino – però non scriveva né leggeva messaggi, né telefonava. Viso di chi non ha dormito da molto. Malinconica sì, d’un misto d’amore e rancore, come se si tenesse afferrata a qualcosa con una saldezza riluttante. Come chi vuole restare e nello stesso tempo andare via. Ci siamo guardati e abbiamo distolto lo sguardo alcune volte, poi ci siamo concessi di guardarci senza distogliere lo sguardo. L’umido luccicante dei suoi occhi mi ha contagiato, c’è stato un momento di comunione. Il suo viso aveva qualcosa d’impercettibilmente irregolare, era come sfuocato, sì, era come se ci fosse una differenza di campo fra lei e il resto della scena. Era a un metro da me ed era lontana molti orizzonti. Poi è scesa alla sua fermata, io ho continuato il viaggio fino al capolinea, in corso Vittorio.Ho proseguito a piedi verso la casa di Lucia. Sono entrato a prendere un caffè nella caffetteria Lumière, ho pensato questa è una caffetteria-pasticceria dove devo portare Clara, perché è un buon posto, una canzone di Paolo Conte in sottofondo diceva cose pertinenti che però non ricordo più. La cameriera mi ha augurato buona giornata.Il maglioncino rosa che ho preso per Lucia le è piaciuto molto. È anche merito di Claudia, è lei che girando per negozi mi ha insegnato a capire che cosa piace a questa e a quella ragazza. L’altro giorno mi ha consigliato una cosa per Chiara e ha indovinato. È uscito un po’ di sole in via Madama Cristina. Mi sono sentito preso. Mi sono sentito colmo. I pensieri non mi stavano più in testa. Ho camminato un po’ di più, per ricompormi.Con Lucia siamo andati alla scuola materna statale (ne esiste ancora qualcuna) a prendere sua figlia e mia nipote, portando nel passeggino l’altro suo figlio e mio nipote. Lucia oggi ha compiuto venticinque anni. Mi ha detto che sono stati bellissimi questi venticinque anni, e che se morisse oggi avrebbe vissuto una splendida vita, che già basterebbe. Meglio viverne però ancora tanti altri, di anni, ha convenuto. Mia figlia e io facciamo spesso discorsi molto filosofici, fin da quando lei aveva tre anni. C’intendiamo bene.Sapete, trent’anni fa sarei stato a recriminare per la faccenda della ragazza sull’autobus, sarei stato a far lagne sull’incomunicabilità, a ripetermi: ma perché non l’ho fermata, ma perché non le ho detto nemmeno una parola. Oggi, con più pacata e serena disperazione, so che, semplicemente, non è possibile. Non le ho detto nemmeno una parola perché non c’è nemmeno una parola da dire, perché non ci stanno tutte le vite dentro la vita, perché lo sguardo e il pensiero sono più vasti del tempo e dello spazio e dunque nelle giornate no, non ci entrano tutte le cose viste e pensate, tant’è che ormai è notte e io oggi non ho combinato quasi un cazzo.E scrivo poesie per raccontare briciole, afferro quel poco che resta in mano, il tempo di abbracciarlo con lo sguardo, il tempo di saperlo o credere di saperlo, e poi lo devo lasciare andare, e spesso mi sento ridicolo come chi volesse svuotare l’oceano con un cucchiaino. A volte vorrei smettere. Cosa racconto a fare? È un esercizio velleitario, vano, forse vanesio e impudico, come qualcuno di tanto in tanto mi fa notare. Ma insomma è la cosa che mi viene. È quello che faccio io, è quel poco che riesco a fare. No, non posso smettere. E quindi... E quindi, come dice il Guccini, quindi tiro avanti e non mi svesto dei panni che son solito portare: ho tante cose ancora da raccontare, per chi vuole ascoltare, e a culo tutto il resto. Buona notte!