Carlo Molinaro

Cousteau alla Caduta


Ieri sera al Teatro della Caduta sono stati tutti davvero bravi nel mettere in scena Avrei preferito essere Jacques Cousteau, ovvero l’arte del documentario a teatro. Uno spettacolo non classificabile in un piccolo teatro non classificabile: quindi, presumibilmente, qualcosa di veramente nuovo. Il teatro è come il vino: quello migliore non ha etichetta. E, nonostante il dilagare delle normalizzazioni, delle standardizzazioni e delle norme UE che impongono etichette dappertutto (*), se ne trova ancora. Poco, ma se ne trova. D’altronde non ce ne vuole molto: basta quel poco.Avevo già visto quasi tutti i «documentari» contenuti nello spettacolo, e mi erano piaciuti fin da subito, ma in questa rassegna completa ci sono stati ulteriori miglioramenti. Ottimo l’accordo fra musicisti, manovratori di effetti speciali, attori e voce narrante. La formazione completa: Andrea Roncaglione (narrazione e regia), Mayumi Suzuki (violino, canto, sorriso contagioso ed effetti speciali), Andrea Gattico (narrazione, pianoforte, canto ed effetti speciali), Vito Miccolis (percussioni ed effetti speciali), Ambra Senatore (nella parte dell’uragano e dell’oca – entrambe le cose in senso proprio, non figurato), Manuel Bruttomesso (nella parte dell’uomo falena e del «selvaggio» cacciatore di oche), Marco Bianchini (nella parte del ghepardo e del soldato Cousteau).L’ho già detto altre volte e non voglio ripetermi troppo, ma trovo prezioso il piccolo Teatro della Caduta (cioè, soprattutto, le persone che gli danno vita): sperimentazione vera e gioiosa, libera, senza sponsor. Serate dinamiche in cui si impegnano anche dieci persone, mentre in altri teatri ho sentito dire che se in scena ci sono più di due attori la faccenda è economicamente insostenibile...  Andateci, alla Caduta. L’ingresso è sempre gratuito: solo alla fine dello spettacolo passa fra il pubblico un cappello nel quale ognuno può mettere il suo contributo. E qui lancerei un appello agli spettatori futuri (oltre al naturale consiglio di esserlo, spettatori futuri intendo): non voglio fare cifre, ma, salvo casi personali disperati, mettere nel cappello meno di dieci euro secondo me vuol dire proprio non tenerci, alle cose belle. (*) Anche assai cretine, come «questo non è un giocattolo» scritto su un sacchetto di plastica: allora perché non scrivere pure «questo non è un cornicione» su una penna biro o «questo non è un bidè» su un paio di occhiali da sole? [Nell’immagine, il bidè di casa mia: vi sembrano occhiali da sole?]