Carlo Molinaro

Via (col) Ven(e)to


Sto correggendo le bozze di un libro che parla, fra l’altro, di gruppi di intellettuali, scrittori, giornalisti nella Roma della fine degli anni Quaranta. Interessante. Parla anche della «mitica» via Veneto, dove maestri di letteratura e giornalismo si sedevano al caffè a chiacchierare di cose profonde e «giovani di belle speranze» si avvicinavano per ascoltare, imparare, e poi magari discutere, collaborare, diventare scrittori e giornalisti.Ecco, questo è uno scenario che non sono mai riuscito a immaginare. Cerco di figurarmelo, e non ci riesco. Allora, c’è la via, ci sono questi caffè, e seduti ai tavolini ci sono questi scrittori e giornalisti. Io sono un «giovane di belle speranze» e passo di lì, e noto che ai tavolini ci sono scrittori e giornalisti. Si presuppone che io per qualche motivo conosca le loro facce, se no come posso sapere che sono scrittori e giornalisti e non avvocati o agenti immobiliari? (Lattonieri o fattorini probabilmente no: non credo che lattonieri o fattorini prendessero il caffè lì.) Ma ammettiamo che, per un qualche motivo, io sappia che sono scrittori e giornalisti. Va bene. Sono lì in via Veneto che cammino, con la mia bella faccia da «giovane di belle speranze». A questo punto che succede? È qui che io mi sperdo. Mi siedo a un tavolo accanto, ordino un caffè e comincio a origliare, per captare i discorsi? Sto lì al mio tavolino, cercando di bere lentissimamente il caffè (se no dopo tre minuti devo andare via!), e intanto ascolto loro che parlano dei più importanti temi culturali del momento, oppure di antiche filosofie, o dell’abbacchio alla scottadito in quell’osteria sul Tevere (perché sono sicuro che avranno parlato anche di quello, essendo umani, no?).Va bene, ammettiamo di fare così. Una condotta un po’ bislacca, ma che potrebbe permettermi di imparare delle cose, sia pure in modo frammentario. Allora ecco io per un po’ di sere mi siedo al tavolo accanto (sperando che sia libero) e ascolto parlare gli scrittori e i giornalisti. Un caffè dopo l’altro, nel bar di via Veneto. Non riesco a figurarmelo, ripeto (se chiudo gli occhi e immagino, vedo solo un pirla seduto a un tavolo a bere in solitudine un costoso caffè, e basta). Ma ammettiamo di fare così.Qual è, però, il passo successivo? Facciamo che, per un mese, io tutte le sere mi sono seduto a quel tavolo a prendere tutti quei caffè. E ho ascoltato attentamente i discorsi, quasi come una spia di un servizio segreto. E poi? Una bella sera mi alzo, mi avvicino al tavolo «degli scrittori» e dico: «Oh, buonasera! Voi non mi conoscete, ma io sono un giovane di belle speranze, passavo di qui per caso e… cioè… insomma… beh, prendiamo un caffè insieme?».No, no, non funziona, è inutile che io cerchi di immaginare una cosa che proprio a immaginare non riesco.Io non ho idea di come si faccia. Non l’avevo a vent’anni e non ce l’ho adesso. Verso i trenta (anni, intendo) ero stufo di lavorare nella casa editrice in cui lavoravo e volevo provare con il giornalismo. Pensai che avrei potuto scrivere recensioni di libri, di film, di teatro, o i famosi «pezzi di costume», e che insomma comunque potevo impegnarmi e imparare, fare delle prove… Scrissi una lettera al principale quotidiano della mia città, poi telefonai, e dopo qualche insistenza (che mi costò come scalare l’Everest, perché odio rompere i coglioni alla gente per impetrare ascolto, è la peggiore delle umiliazioni – tranne in amore) ebbi un appuntamento con il vicedirettore. Credo fosse Luigi Firpo, ma non ne sono affatto sicuro. Odiavo anche l’idea di «andar per conoscenze». Avevo in mente un lavoro da proporre a un giornale: che c’entrano le persone? E comunque non conoscevo nessuno, e forse non era Luigi Firpo, anche se mi pare di sì, ma non sono sicuro.Il vicedirettore, chiunque egli fosse, mi accolse con una certa ostilità, o almeno così a me parve. Gli spiegai chi ero e quello che volevo provare a fare. Ma ricordo che lui obiettò: «Lei lavora in una casa editrice, dove i tempi sono lenti. Qui è diverso: la recensione io la voglio in poche ore. Non credo che lei possa fare questo…».Secondo me non era vero: potevo: so essere svelto quando voglio: ma non ero proprio sicuro (non lo sono mai, e non ho idea di come si possa esserlo), e lui era ostile, la sua ostilità mi faceva male, e me ne andai e così, in dieci minuti, si concluse la mia carriera di giornalista. Vabbè, forse non era destino, e comunque sono stato felice lo stesso, nella vita. I «pezzi di costume» li scrivo qui, adesso, per voi, gratis, ed è bello, ed è libero. Anche se i pezzi di costume che mi piacciono di più restano sempre quelli che riesco a togliere alle ragazze in costume due pezzi, uff, che voglia che ne avrei oggi con questo sole invernale ma caldo!Oggi ho riveduto (sono stato costretto a rivedere) un po’ la mia idea che non si debba «andar per conoscenze». Da quando lavoro in modo autonomo/precario, dopo il licenziamento da quella famosa casa editrice, tutti i lavori e lavoretti che ho avuto li ho avuti perché «conosciuto» da qualcuno. Ho provato a mettere annunci, a rispondere ad annunci, cioè ad avere del lavoro perché sì, perché è normale lavorare, e non perché conosciuto, ma zero virgola zero virgola zero. Mi arriva lavoro solo da persone che mi conoscono. Forse è naturale così e ho sbagliato io tutta la vita a pensare diverso.Resta il problema: ma come cazzo fa uno a incominciare? Io ho avuto la botta di culo che, quando mi laureai, nel 1977, c’era una casa editrice che cercava redattori, e chiese al professore con cui mi laureai se aveva sottomano qualche neolaureato in lettere da proporre, e lui propose me (anche se non gli avevo mai portato la borsa da nessuna parte: un uomo cristallino: infatti non fece nessuna carriera: pochi anni dopo finì, credo, a insegnare in un liceo in Austria, se ho ben capito). Quindi mi andò bene.Ma se no? A tutt’oggi non ho idea di come si faccia a trovare lavoro. Perché quello scenario di via Veneto, che tu sei un «giovane di belle speranze» e passi di lì e prendi il caffè e se sei bravo diventi giornalista, a me non mi convince. Possono raccontarmelo finché vogliono, ma a me non mi convince. Boh! Riprendo il lavoro, oggi ne ho da fare – l’ho avuto grazie a una cara persona che mi conosce da un quarto di secolo e mi stima capace di farlo, il lavoro. Grazie. Buona domenica![Nell’immagine, una foto che ho scattato all’angelo in cima al campanile di Santa Zita, a Torino, in via San Donato.]