Carlo Molinaro

L'evoluzione dei titoli dei giornali


Stamattina ho preso un caffè a Sestri Levante, amena cittadina di questa riviera ligure d’Oriente. Nel bar erano affisse due prime pagine «storiche» del Corriere della sera: 1962, il suicidio di Marilyn Monroe, e 1982, la vittoria dell’Italia ai campionati mondiali di calcio in Spagna. Ho immediatamente notato due cose: la grafica, che m’è sembrata «antica», e i titoli, semplici, sobri e puramente descrittivi: Marilyn si è uccisa e L’Italia si aggiudica i mondiali di calcio. Praticamente nessuna differenza fra lo stile del 1962 e quello del 1982; enorme differenza con lo stile di oggi. La grafica, l’impaginazione, l’aspetto visivo della pagina: tutto vorticosamente cambiato in tempi recenti.È naturale che le cose cambino, non ho nostalgia della grafica di allora. Ma sui titoli forse sì, ho nostalgia. Un pochino sì. Mi mancano un po’ quei titoli «normali». Oggi sembra diventato obbligatorio, per ogni titolo, essere un gioco di parole, un calembour, una battuta secca, un effetto speciale. Tutte cose che vanno bene ogni tanto, vanno bene occasionalmente, ma che, se ripetute quotidianamente, danno assuefazione, annoiano, e insinuano pure un senso di superficialità, come se il titolo fosse più importante della notizia, la forma più importante del contenuto. Non è che questi titoli col botto spiritoso, ripetuti ogni giorno, rischiano di diventare una copertura per un giornalismo pessimo?Il gusto per la battuta sempre, la battuta obbligata, mi fa pensare a un’arcadia preziosina e ridicola. La battuta non può essere la regola. Poco fa, seguendo un filo di pensieri miei, che non c’entravano nulla con ciò che sto scrivendo ora, mi sono detto quella frase evangelica delle perle gettate ai porci, e mi è venuto in mente che le ultime cinque o sei volte che l’ho sentita era sempre accompagnata dalla battuta ironica: no, non gettate perle ai porci, che si rovinano i porci. Che palle!Una battuta di spirito è una bella cosa, a volte è quasi un’opera d’arte. Un titolo arguto può fare un bell’effetto. Ma voler mettere sempre, voler mettere dappertutto battute di spirito e titoli arguti, fa dubitare che forse non ci sia da dire niente di serio, niente di vero, niente d’importante. E questo è triste, no?