Carlo Molinaro

La scena del vivere


Ieri sera sono stato a cena con amici a Mallare. Una buona cena in compagnia in un buon ristorante. Il viaggio con la Panda fra neve e nebbia, tranquillo. Poi stamattina a Torino il sole sfolgorante che scioglie le ultime tracce di neve ghiacciata sul tetto di fronte. Gli scenari, le emozioni. Qualche giorno fa un’amica si domandava se, in certi momenti molto intensi, ciò che ci emoziona è davvero il momento in sé, direttamente, o è la scena del viverlo. Sembra una domanda inutile, da sega mentale, però contiene in sé infiniti discorsi, compresa la differenza, di cui mi parlava un altro amico, fra amare davvero una persona e amare l’amore con quella persona (la storia d’amore con quella persona). Il vivere e il guardare (guardarsi) vivere. Forse c’entra anche Arthur Schopenhauer, Il mondo come realtà e rappresentazione. Forse c’entra pure Pedro Calderón de La Barca, La vida es sueño. Forse no.Pare che la principale differenza fra l’uomo e gli «altri» animali stia proprio nel fatto che l’uomo, oltre a vivere, si «vede» vivere. L’autocoscienza, la capacità speculativa. Meraviglia e condanna, che ci toglie la felicità dell’oca (Guido Gozzano: ché l’esser cucinato non è triste, / triste è il pensare d’esser cucinato) e ce ne dà forse un’altra, più problematica e complessa. Dove vivere e guardarsi vivere si fondono in un’unica condizione, la condizione umana. L’oca vive e non si guarda vivere. Noi viviamo e guardiamo vivere sia l’oca sia noi stessi. E guardiamo morire sia l’oca sia noi stessi. Ne abbiamo coscienza. La coscienza non è già in sé un «guardarsi vivere»? E la memoria, la memoria che fa sì che la nostra vita esista in modo non solo puntiforme, è rappresentazione, certamente. La scena della memoria. Il presente è un punto geometrico senza dimensione che traccia la linea della memoria. Tutto, dunque, diventa subito memoria, rappresentazione, scena. Viviamo da esseri umani e non da oche perché ci vediamo vivere e ce ne ricordiamo.E con ciò? Beh, niente, discorsi così di una domenica mattina in cui mi sono alzato tardi dopo la cena a Mallare (sono rincasato alle tre, dopo il viaggio). Mi è venuta in mente una poesia in cui, nel finale, uso la parola «scenografi» accanto alla parola «bacio». È a pagina 556-557 di La parola rinvenuta. Forse c’entra, forse no. Forse cerca di andare nella direzione, ostinata e contraria, del vivere più che guardarsi vivere. Chissà. Dato che un altro amico ancora mi ha detto che gli piace ascoltare le poesie lette a voce dall’autore, quel finale anziché trascriverlo lo dico, nel video qui sotto. Sullo sfondo, giustamente, la scena di un bacio. E buona domenica.