Carlo Molinaro

Velocità e comunicazione


Quindici anni fa avevo una relazione con una ragazza. Una gran bella relazione con una gran bella ragazza. Io ero sposato e lavoravo in un’azienda, in un ufficio. Lei abitava con i genitori, studiava e aveva, oltre a me, un altro fidanzato e una fidanzata. Anch’io avevo, oltre a lei e alla moglie, altre due fidanzate. Un intrico molto bello. Eravamo innamoratissimi. Davvero molto bello. Durò due anni circa.Ma, tranquilli, non è il mio solito «amarcord» di amori passati. No, stavolta è solo lo spunto per un discorso sulla comunicazione e sulla velocità. Era quindici anni fa, non un secolo fa, ma era tutto diverso: non c’erano i telefonini e non c’era internet. Io avevo orari di lavoro rigidi e abitavo con una moglie. Lei aveva orari più liberi e abitava con un padre e una madre. Tre persone poco favorevoli alla nostra relazione.Io telefonavo a casa sua negli orari in cui lei era sperabilmente da sola in casa. Lei a me telefonava in ufficio. Ma erano tre, massimo quattro telefonate alla settimana. In compenso ci scrivevamo tante lettere d’amore, certe volte anche tre al giorno. Lei me le spediva al Fermo Posta di via Alfieri. Io gliele spedivo a casa: i suoi la posta almeno non gliela controllavano.Ci vedevamo una o due volte alla settimana. Di mattina o di pomeriggio, e allora prendevo un permesso dal lavoro, ore che recuperavo il giorno dopo o avevo recuperato il giorno prima. Oppure di sera, e allora inventavo una scusa per uscire. Di sera a volte lei riusciva a farsi dare la macchina di suo padre, una macchina grossa, e facevamo l’amore lì. Qualche volta abbiamo fatto l’amore a casa sua, quando i suoi non c’erano. Qualche volta a casa mia, quando mia moglie era via. Le altre volte, in qualche piccolo albergo a ore.L’appuntamento ce lo davamo al telefono quando potevamo, anche due giorni prima, e poi, una volta stabilito, così doveva essere. Non c’era la possibilità di avvisare all’ultimo momento con il cellulare. Non si potevano mandare messaggi o mail. Se a uno succedeva un impedimento, l’altro restava ad aspettare invano. Ma non succedeva quasi mai. Ci trovavamo quasi sempre.Bisognava saper aspettare. Tenere i pensieri da parte. Scriverli nelle lettere, o ricordarli e dirli al primo incontro. Anche le tensioni, positive o negative. Una volta lei ebbe, con le sue cose, un ritardo di un mese, cioè saltò un ciclo. Trepidavamo, ma sempre nei nostri tempi misurati. L’attesa. Tenevamo le cose nel cuore nell’attesa di vederci. Eppure non eravamo così in ansia. Era naturale. Eravamo armoniosi. Se lei fosse stata incinta avremmo di certo tenuto il bambino. In qualche modo avremmo fatto.Adesso, nelle relazioni che ho adesso, se mi viene un pensiero lo mando subito, con una telefonata dal cellulare ovunque io sia, con un sms, con una mail. Se lei non mi manda nessun sms nella mattinata già m’inquieto. La comunicazione costante ci accompagna anche nella distanza fisica. Adesso è così, è inutile pensare se è meglio o peggio. Tanto non si può tornare indietro, sarebbe solo una caricatura, come quelli là in America, una setta religiosa, non mi ricordo come si chiamano, che vivono come nell’Ottocento, ma credo che lo sappiano anche loro che è una finzione, una recita. Non si può tornare indietro. Oh, in teoria potrei andare a Genova o a Roma o a Venezia a cavallo, ma che senso avrebbe? E non ci sono neanche più le Poste dove cambiare cavallo.Tutto è veloce. A parte i pensieri nelle relazioni d’amore, anche tutto il resto. Anche le poesie: una volta le tenevo nel cassetto, le facevo forse leggere a un amico, scritte a macchina su un foglio, e così restavano, semisegrete, finché non pubblicavo un libro. Adesso quando scrivo una poesia mi viene quasi sempre spontaneo metterla qui nel blog, magari dieci minuti dopo averla scritta. E anche questo pensiero che sto scrivendo, se lo stai leggendo è perché mi è venuto spontaneo metterlo subito nel blog.In realtà, forse il mio è un caso particolare perché sono sempre stato un ansioso della comunicazione. Quando scrivevo le lettere di carta e francobollo, spesso, se finivo di scriverne una nel cuore della notte, uscivo subito, magari nel gelo, a imbucarla. Oh, lo sapevo che era inutile, che tanto la posta non la prelevano dalle buche di notte, e quindi imbucare il mattino dopo sarebbe stato esattamente lo stesso. Eppure facevo così. Perché la lettera era pronta e doveva andare, andare subito.Quindi forse su di me questa velocità/facilità di comunicazione ha una presa particolare, mi espone a più rischio, me ne drogo, mi ci eccito, come uno a cui hanno tolto dei sani limiti, come un ghiottone che però una volta aveva solo la possibilità di un cioccolatino al giorno e se lo godeva, e poi si è trovato ad averne illimitatamente e ci si rovina lo stomaco. Devo governarmi meglio. Chissà. Però. Ho un pensiero per lei, il telefono è lì sul tavolo, perché non metterlo subito in un sms? La poesia è pronta, perché non darla subito «al mondo» nel blog? Un’idea da confidare a qualcuno, ecco la mail, in un secondo è là. Non so, non so. A volte mi sento frastornato. A volte no. Ma è così, insomma.Nel campo del lavoro invece l’avvento della velocità è stato una fregatura e basta. L’esempio classico è quello del controllo di una bibliografia, uno dei miei lavori tipici. Vent’anni fa si doveva andare in biblioteca, o in più biblioteche, prendere contatti, magari scrivere (su carta) ad autori o studiosi. Talvolta fare un viaggio, persino. Roba che richiedeva giorni. Adesso clic, clic, clic, sito della Library of Congress, sito delle biblioteche d’Italia, sito dell’ISBN e così via, in due ore sistemi quello che sistemavi in due giorni. Sarebbe bello se te lo pagassero come due giorni di lavoro e tu nel resto del tempo potessi vivere la tua vita. Ma no, te lo pagano per due ore o anche meno, che devi essere ancora più veloce. E dunque, sul lavoro, la velocità è una fregatura, senza se e senza ma. Buona serata a tutti! [Nell’immagine in alto a destra, spose con fontana, o fontana con spose.]