Carlo Molinaro

Basta necrologi sul giornale


Monica è morta il 16 aprile del 1992. Da allora, ogni 16 aprile, ho messo su La Stampa un piccolo necrologio di anniversario. Sedici anniversari, sedici necrologi. Ho sbagliato a farlo la prima volta: poi è difficile smettere, perché ti sembra di darla vinta all’oblìo. Un necrologio su La Stampa non serve a nulla. Monica non avrebbe approvato. I giornali, con i necrologi, sono dei veri vampiri: nulla è più costoso di un necrologio. Per quei pochi millimetri su una colonna, gli avvoltoi ti scuciono centocinquanta, duecento euro come niente fosse. Il necrologio costa molto, molto di più della pubblicità commerciale: lo spazio lo fanno pagare, in proporzione, assai più caro alla vecchietta vedova pensionata che vuole ricordare il marito morto, per esempio, piuttosto che al grande stilista, ricco venditore di nulla, che occupa paginoni con le sue inutili vaccate. È il mercato, bellezza. Il mercato che sfrutta tutto, e dunque sfrutta anche il dolore e quel poco di fragile vanità che può indurre a volere «scritto sul giornale», davanti al villaggio, il nome della persona cara che il villaggio ha lasciato. Fragilità sciocca – ma ci si casca, ci si può cascare.Ora ho deciso che basta. Dopodomani non ci sarà nessun necrologio d’anniversario. C’è la crisi, non ci sono più soldi, si fa fatica. Quegli euro è meglio usarli per comprare un libro che serve ai miei figli per un esame all’università, o un biglietto del treno per andare da un amore. O metterli nel cappello di un artista di strada. Sono sicuro che Monica è d’accordo; anzi immagino che dica, là dove è, ovunque possa essere: «Era ora, Carlo! Ne hai già regalati troppi a quei maledetti capitalisti».La ricordo qui. È morta che le mancava una settimana a compiere ventidue anni. Era una ragazza normale, con qualche problema in più. Era una ragazza normale, con i suoi difetti e i suoi pregi. Secondo me, era meravigliosa. Secondo me, è meravigliosa. La foto è dell’estate prima, l’estate del 1991, quando l’ho conosciuta. E siamo ancora abbracciati, in quel modo strano di noi senza dio, che non crediamo in nulla o forse crediamo in tutto, sperando sempre di restare sorpresi, stupiti.