Carlo Molinaro

Abbasso Grandi Stazioni (e non solo)


Espresso 823, «Freccia del Sud». Per Agrigento, ma limitato a Catania perché, dopo, la ferrovia è crollata: si vede che i cadaveri nei pilastri avevano l’osteoporosi. Vagoni come forni. Alla stazione di Milano Centrale mi scappava la pipì e sono dovuto andare al cesso: un euro per pisciare. A Torino, a Porta Palazzo, le donne arabe vendono, per un euro, sei pagnotte grandi, con o senza semi di sesamo. Il pane che basta per un giorno per una famiglia numerosa (io che sono da solo ne compro per 50 centesimi e faccio pranzo cena e colazione il mattino dopo) vale una pisciata a Milano Centrale. Dalla stazione sono sparite le fontanelle e l’ufficio postale, due cose essenziali; in compenso è pieno di negozi di inutile costoso ciarpame. Al posto delle informazioni sui treni, ci sono video pubblicitari (anche di medicinali dopanti, ho notato). Sparita anche la sala d’attesa, tutto chiuso, tutto a pagamento: i barboni e i clandestini dormano all’addiaccio. Sembra un merdoso centro commerciale. Il loro motto deve essere: meglio morire che dare qualcosa gratis. Per fortuna ho una buona provvista di acqua del rubinetto e biscotti. Voglio essere sempre più rigoroso su questo: mai un centesimo, mai, alla ditta “Grandi Stazioni”. È così la stazione di Milano, ma lo stanno diventando un po’ tutte, ahimè. La logica del capitalismo. Dirigenti avidi e stupidi, imprenditori assatanati, il profitto, il profitto, e architetti venduti che trasformano nobili ariose stazioni monumentali in soffocanti strati di negozi orrendi, angoscianti. Bastardi distruttori di umanità e bellezza, un giorno la pagherete, spero. E vabbè. Intanto l’Espresso 823, uno degli ultimi treni rimasti con un prezzo umano da Milano verso Bologna e Firenze (l’Eurostar costa esattamente il triplo, e se lo ficchino tutto nel culo), parte. Davanti a me c’è una ragazza carina, magra, biondina, con lo smalto rosso sulle unghie. È bella. Non riusciranno a distruggere tutto. La vita continuerà.