Carlo Molinaro

Tre poesie a filo perso


Queste tre poesie, scritte in questi giorni, parlano di cose diverse, eppure mi sa che hanno un filo conduttore: il distacco fra immaginato e vissuto, fra sogno e realtà, fra ideale e concreto. E la necessità di superarlo, quel distacco, senza... perdere il filo. Buona settimana a tutti! L'AMORE NON È NÉ UN CAVALLO NÉ UN ANGELO Ho talvolta invidiato i cavalli perché non si fanno problemi a cagare: in qualsiasi posto, anche camminando, se devono cagare cagano. Non come noi che magari siamo in treno e su otto vagoni non c'è un cesso che funzioni, o siamo in giro e bisogna andare a caccia di un bar e prendere un caffè anche se non se ne ha voglia e sperare che ci sia la carta igienica (comunque è meglio avere in tasca dei fazzolettini). Ho talvolta invidiato i cavalli anche perché trombano senza usare le mani (d'altronde se no si sarebbero estinti: le mani non le hanno): il cazzo gli viene duro e trova, tutto da solo, la fica della cavalla: è molto bello, molto naturale, direi molto romantico. Io la prima volta che ho fatto l'amore - o, per meglio dire, che non l'ho fatto - avevo questa idea che l'amore fosse una cose equina e celeste, naturale e angelica: a usare le mani mi sembrava di offenderlo, di renderlo artefatto, artificiale, voluto, non spontaneo, come se si scrivesse una poesia per decisione di scriverla e non perché viene. La ragazza era sul prato ed era bella, e ben disposta, nuda con le gambe un po' aperte, era una sera d'agosto, dopo il prato c'era il mare, era tutto perfetto per la mia prima volta, non mi potevo certo lamentare: mi stesi su di lei e la baciavo dappertutto e l'abbracciavo e accarezzavo con dolcezza e aspettavo che il mio cazzo s'indurisse e andasse al posto giusto, dentro lei: toccarmi con le mani mi sembrava inverecondo, inadatto all'incanto di quel dolce momento. Ma essendo ansioso e non essendo un cavallo né il cazzo s'indurì né tantomeno si diresse da sé verso la meta: e fu un vero disastro. La mia verginità durò così altri due anni, poi mi decisi a toccarmi con le mani e finalmente andò. Massì. Ci vuole un po' di senso pratico. Però le poesie no: le poesie le scrivo solamente se vengono da sole. Le poesie funzionano come il cazzo del cavallo, almeno loro vengono senza decidere, spontanee, non spinte né guidate dalle mani: acquistano da sé la consistenza per penetrare: angeliche ed equine riempiono tutti i buchi in terra e in cielo. Per far l'amore invece è meglio usare anche le mani, ed è bello lo stesso, non si è cavalli né angeli e del resto pure i cavalli hanno i loro problemi: li fanno correre come dei dannati negli ippodromi, poi ne fanno bistecche. Quanto agli angeli, ammesso che ne esistano, sul loro sesso si è sempre discusso persino mentre bruciava Costantinopoli: se fanno sesso, comunque, di certo sono gay, perché non c'è notizia di angele in nessuna delle sfere. LE FANTASTICHERIE Le fantasticherie sull'«inutilmente amata» sono una cosa infantile da vergognarsene: di solito non le racconto neanche agli amici più intimi, neanche alle fidanzate: ma stamattina è una domenica di primavera, ho messo avanti gli orologi di casa perché scatta (si dice sempre «scatta») l'ora estiva e poi vado a votare contro il maledetto banana, e ho deciso di raccontarne qualcuna, un piccolo campione fra le circa quindicimila fantasticherie fantasticate in un anno e mezzo su una ragazza inutilmente amata: raccontarle può essere liberatorio e poi mi sono sempre domandato se sono pazzo e infantile io solamente o se succede ad altri: se qualcuno vorrà darmi informazioni in tal senso sarà gradito. Una volta ho fantasticato che ci rapivano dei terroristi arabi prendendoci a caso in un posto qualsiasi e ci chiudevano in una stanza chissà dove: lei era terrorizzata e anch'io, però la confortavo e parlavamo e passavano i giorni e ci raccontavamo le nostre vite e col passare dei giorni lei si innamorava e ci baciavamo e nonostante il terrore eravamo felici: i nostri carcerieri guardavano i nostri baci e la nostra felicità e si commuovevano, poi arrivavano gli americani per un blitz e stava per cominciare un massacro ma anche gli americani vedevano i nostri baci e la nostra felicità e si commuovevano e lo dicevano ai capi e i capi decidevano che se esiste una felicità così grande non ha più nessun senso fare la guerra, così finiva la guerra in Oriente e si era tutti liberi e veniva assegnato ai nostri baci il premio Nobel per la pace a andavamo a vivere in una casa sul mare. Una volta ho fantasticato che eravamo in un posto con prati e cavalli, un posto che esiste davvero, dove una volta Guido ha letto poesie con Gattico e Suzuki che suonavano, un maneggio nei dintorni di Torino, e lei aveva bevuto qualche bicchierino di vino liquoroso e c'eravamo io e un ragazzo che la corteggiavamo e lei diceva, perché aveva bevuto qualche bicchierino, va bene darò un bacio a uno dei due, giocatevi il bacio in una gara, e facevamo ai rigori, come la finale dei mondiali, c'era una porta di calcio e facevamo ai rigori, io ne segnavo uno, anche solo uno, ma quelli che tirava l'altro li paravo tutti, perché vedevo partire il pallone e mi lanciavo e li paravo con la forza dell'amore ma mi facevo malissimo (ho una certa età) ed ero tutto ammaccato e sanguinante, probabilmente vari strappi muscolari e forse un polso fratturato, andavo verso di lei zoppicando e lei con le lacrime agli occhi si avvicinava per baciarmi ma io le mettevo una mano sulla bocca e le dicevo: no, io non voglio baci vinti ai rigori, mi bacerai quando vorrai, quando mi amerai, e mi allontanavo svelto (svelto compatibilmente col fatto che zoppicavo) e lei restava ferma, esitava un momento, io ero già lontano qualche decina di metri, poi faceva un gesto, un gesto da sola per sé, un gesto finale come in una canzone di Guccini, e si metteva a correre e mi raggiungeva e mi guardava negli occhi e i suoi occhi dicevano che mi amava davvero e allora sì ci baciavamo e andavamo via da soli lungo il Po e lei continuava a baciarmi e mi medicava le ferite. Una volta ho fantasticato che era come in «Autumn in New York», io Richard Gere, lei Winona Ryder, anche se noi siamo cento milioni di volte più belli che quei due là, e lei mi raccontava tutta la sua vita, la sua vita è bellissima, mi raccontava di quando era bambina e in campagna di notte suo nonno le insegnava i nomi delle stelle, mi raccontava i giochi nei vicoli con i ragazzini del quartiere e i natali festeggiati che arrivava il «caga tió» (una tradizione dei suoi posti) e bisognava batterlo finché non cagava i regali, e poi le pazzie, i primi amori, le fughe: ma era malata, aveva un male inguaribile, nessuno degli amici lo sapeva, a me lo diceva e mi diceva che non dovevo innamorarmi di lei perché lei sarebbe morta entro un anno, due al massimo, non c'era niente da fare, ma io la prendevo con me e andavamo in tutto il mondo a cercare, e trovavamo uno che sapeva curarla e, a differenza che nello stupido film di Joan Chen, l'operazione riusciva e lei guariva perfettamente e andavamo a vivere nella stessa casa sul mare di due fantasticherie fa (non è il caso di fare una casa nuova a ogni fantasticheria, le case costano). Una volta mi sono spinto più oltre e ho fantasticato che avevamo già fatto l'amore, perché una volta allo Sbarco (ma va bene anche l'Artintown, non facciamo questioni) ci eravamo guardati negli occhi e zac, ci eravamo innamorati, semplicemente, come a volte succede, avevamo fatto l'amore alcune volte e lei era rimasta incinta e mi diceva: non voglio abortire però non so se è tuo, potrebbe essere di altri tre o quattro con cui ho fatto l'amore questo mese, e io le dicevo: non importa, io ti amo e quindi facciamo che è mio, a quegli altri non importa così tanto, non verranno a chiedere la prova del DNA, sono un po' anziano come padre ma non importa, facciamo che è mio, e stavamo insieme e nasceva una bambina e la chiamavamo María de los Remedios, per gli amici Remedios, per gli amicissimi Reme, Remy no, Remy fa cagare, e stavamo insieme in quella solita casa sul mare. Una volta ho fantasticato che le mandavo un regalo di Natale al suo paese, pur non sapendo l'indirizzo, lo mandavo ai ragazzi di un bar del paese chiedendo che mi facessero il favore di trovarla e i ragazzi la trovavano e le davano il regalo, un regalo semplicissimo, un portachiavi con il suo nome, non contava il regalo, contava il pensiero, e lei nell'aria natalizia si accorgeva di amarmi e mi telefonava e tornava e andavo ad aspettarla a Caselle o alla Malpensa e lei usciva da quei cancelli lì che ci sono negli aeroporti e ci correvamo incontro e ci baciavamo ed esplodeva una gioia così incredibile che tutto si fermava, tutti i passeggeri perdevano tutti gli aerei e i professionisti buttavano via le valigette ventiquattrore e decidevano finalmente di vivere la vita, distillando liquori dai fiori in una casa lungo il fiume e anche noi andavamo a vivere su un fiume (tanto per cambiare). (A proposito di quest'ultima fantasticheria ci sarebbe da fare un discorso su come sia pericoloso, pericolosissimo, cercare di mettere in pratica le fantasticherie: i ragazzi dei bar dei paesi a volte possono prendere iniziative improprie e vien fuori un casino. Ma questo non c'entra.) Ne ho raccontate cinque, vi risparmio le altre quattordicimilanovecentonovantacinque su questa ragazza e le altre centinaia di migliaia su altre ragazze nei cinquant'anni precedenti: a me le fantasticherie vengono così come piovesse, molte decine al giorno (questo spiega alcune cose sulla mia scarsa produttività, sul mio scarso successo nella vita professionale). Suonano le campane di Santa Zita, è un bel mattino, ora vado a votare contro il maledetto banana, forse il Piemonte resterà alla sinistra (o forse anche questa è una fantasticheria): voi se avete letto fin qua magari ditemelo se succede solo a me di fantasticare così o se è una cosa comune: perché la gente certe cose non le racconta, dato che è una cosa infantile da vergognarsene, certamente lo è, lo è sicuramente: la gente anche se lo fa non lo racconta, e dunque non lo so. PLIN PLON PLIN PLEN Plin plon plin plen. Prossima stazione, Re Umberto. Nella metropolitana m'entra in testa quel suono in quattro note: plin plon plin plen. L'ho sentito migliaia di volte ma adesso m'entra in testa e lo ripeto nella mente, e mi vien voglia di capire che note sono. Sale o scende? La prima è uguale alla terza? Plin plon plin plen. Prossima stazione, Vinzaglio. Forse è re-do-re-mi? O mi-do-re-mi? Mi sussurro la scala di do maggiore avanti e indietro, cercando di associare alle note corrette il plin e il plon, ma non sono sicuro. Non sono un musicista, ho studiato un po' di musica da giovane. Plin plon plin plen. Prossima stazione, Diciotto Dicembre. Se avessi uno xilofono o quei cosi da bambini, un glockenspiel, o anche un pianoforte, le troverei di certo: cazzo, son quattro note. Ci riprovo sussurrando la scala Plin plon plin plen. Prossima stazione, Principi d'Acaja. Che rabbia. Neanche a casa ho un glockenspiel, e con l'armonica a bocca non ci riesco a trovare le note, me l'ha regalata mio figlio, ma non so mica usarla. E poi tempo che sono a casa mi confondo e mi dimentico. Mi dovrei portare uno xilofono qui sulla metro. Plin plon plin plen. Prossima stazione, Bernini. Come, Bernini? Ma dovevo scendere a Principi d'Acaja. E sono già in ritardo. Ma cazzo, cazzo, cazzo, ma perché mi perdo sempre in un mare di cazzate? (E mica smetto. Andando verso casa da piazza Bernini, tanto vale andare a piedi a questo punto, penso che posso filmare nella metropolitana e mi rimane anche l'audio, lo porto una sera in un posto che so che c'è un amico col glockenspiel, lo riascoltiamo e le troviamo in un istante, quelle quattro note.)