Carlo Molinaro

Io non amo la poesia


«Il poeta è un fingitore. / Finge così completamente / che arriva a fingere che è dolore / il dolore che davvero sente» (F. Pessoa, Autopsicografia).Il poeta è un fingitore non perché sia innamorato della finzione, dell'artificio, del gioco di prestigio, dell'arte, insomma di sé stesso, ma perché le cose (il dolore, l'amore, ma anche la ragazza, la rosa, il bicchiere) nella loro natura di cose non sono dicibili, non sono raggiungibili dal pensiero, dalla memoria, dal linguaggio: ogni singola cosa, astratta o concreta, è suprema, è un desiderio, e di ogni singola cosa, astratta o concreta, si può affermare ciò che afferma Dante del «là su», perché in ogni cosa è il «là su»: «Nel ciel che più de la sua luce prende / fu' io, e vidi cose che ridire / né sa né può chi di là su discende; / perché appressando sé al suo disire, / nostro intelletto si profonda tanto, / che dietro la memoria non può ire» (Dante, Par., I, 4-9).La percezione viva delle cose (dolore, amore, ragazza, rosa, bicchiere) è un profondarsi dell'intelletto che esclude la memoria e la dicibilità. E quindi produce l'isolamento in una totale solitudine. Alla quale ci si può rassegnare: ci si può rassegnare a comunicare solo piccole cose di superficie (sto bene, ho comprato una bicicletta, è morta mia madre, sono innamorato, la Spagna ha vinto i mondiali, il cappuccino lo voglio con poca schiuma, sto morendo) lasciando l'essenza della percezione sepolta in un intimo irraggiungibile. È ciò che fanno quasi tutti.Il poeta non si rassegna e vuole dire le «cose davvero». Ma è un uomo come gli altri, e non può direttamente dirle (neppure a sé stesso). Le sente agitarsi dentro, ne ha una percezione a suo modo chiara, ma non può dirle. Ha un dolore, un amore, una ragazza, una rosa, un bicchiere: ed è potuto penetrare, in un lampo di grazia, dentro la loro natura, dentro la verità, dentro il «là su» di ogni cosa. Ma né sa né può ridire.E allora deve costruire (fingere) un qualcosa che assomigli: che assomigli il più possibile all'indicibile che ha sfiorato, ma che sia in qualche maniera dicibile. Dimodoché, dicendolo, si evochi, il più vicino possibile, quel «là su» che, nel cuore delle cose, resterà eternamente non detto. Il lavoro del poeta non è sogno ma è verismo, realismo, naturalismo. Può sembrare sogno perché la costruzione (finzione) assume spesso i caratteri del sogno. Ma è un sogno ansioso, un sogno che cerca, un sogno che continuamente si corregge: un sogno fatto per cercare realtà. La necessità che tormenta il poeta non è inventare sogni, ma trovare la combinazione (di parole, ritmi, immagini) che apre la cassaforte dell'indicibile realtà. Però le casseforti sono infinite, come scatole cinesi: dentro ognuna ce n'è un'altra da aprire: ti avvicini, ma non arriverai mai.Un poeta non è mai contento di ciò che ha scritto. Non può esserlo, perché nella sua costruzione (finzione) egli vede distintamente la lontananza, l'incolmabile stacco da ciò che egli, in qualche modo, ha visto e «sa». Con le parole ha finto, ha costruito un qualcosa che fosse il più vicino possibile a quella verità, a quel «là su» dentro le cose, dentro il dolore, l'amore, la ragazza, la rosa, il bicchiere. Se è bravo e gli è andata bene, ha aperto qualche cassaforte; ma resta sempre un infinito ulteriore spazio impercorribile. E sono spazi strani, che più si restringono più gridano la loro disperata impossibilità: bravo, poeta, sei arrivato vicino, e ora il tuo desiderio (tanto, tanto ti sei appressato al tuo disire!) qui vicino è violento, travolgente, insostenibile, ti fa impazzire: ma resterai fuori, fuori, come tutti gli altri che passeggiano in lontananza e non hanno osato provare. Tornerai da loro sfatto, sfibrato, e avrai ben poco da raccontare, perché dietro la memoria non può ire. Anche se forse a loro parrà già molto, perché loro non hanno visto, non sanno quanto vuoto, quanta mancanza, quanta lontananza c'è dentro i tuoi versi, quanta distanza fra i tuoi versi e la cosa.Poi ci sono i cialtroni che fanno mestiere di poeti, e per loro è diverso. Loro fanno un passo o due, magari nemmeno importa verso dove. Trovano un poco di parole belle, un'armonia, una batteria di versi originali, si accorgono che è quanto basta per stupire, per far allargare gli occhi al pubblico nel circo. Si innamorano di quei versi, di quelle parole, della loro stessa voce che le pronuncia. Decidono che la cosa è quella: la si può dire così bene! Pontificano che la più nobile attività è il gioco della letteratura, che con la vita proprio non si mescola, non si deve mescolare: è da dilettanti mettere i fatti propri in poesia, suvvìa! Arrivano a dire che la letteratura è la cosa vera, e non esiste altra cosa di cui valga occuparsi.Poi fanno i loro circoli, i loro club, i loro gruppi, e mi incontrano e mi dicono: «Vieni! L'unica condizione per essere dei nostri, è amare la poesia». Ringrazio, saluto ed esco. Io non amo la poesia. Amo il dolore, l'amore, la ragazza, la rosa, il bicchiere. La poesia è ciò che uso per provare, senza riuscirci, a dirlo: agli altri e, soprattutto, a me stesso.E quando leggo le poesie degli altri, funziona uguale: ci scavo dentro per scoprire se sanno dirmi qualcosa, qualcosa in più, del dolore, dell'amore, della ragazza, della rosa, del bicchiere. Tutto qui.