Achab

La per(f)cezione del Poeta


Aveva l'anima incastrata tra i rovi. Era esausto, aveva le gambe arcuate dal peso dell'universo.La vita gli aveva consumato i polpastrelli, la penna il foglio avevano fatto il resto.Osservava ogni dettaglio, passava le ore a perlustrare con l'iride il busto nodoso degli alberi, non sapendo nemmeno che interconnesioni e simbologie avrebbe estrapolato dal suo bulbo occhieggiante e smanioso.Affannandosi a cogliere tutte le immagini multiformi delle foglie, (la forma longinea era la prediletta, perché si estendeva oltre l'orizzonte visivo della lumaca che ospitava), il mare lo osservavava accigliato e s'inquintava quando le onde si ritiravano, il moto perpetuo per eccellenza, che poi è quello stesso della realtà: La caducità lo spaventava."Le cose caduche, transitoree" -Rifletteva-, "Che forma hanno? Mutano, sono frammenti di vetro, cocci  di bottiglia incociliabili.. incongruente la vita è. Quante esperienze non consumate, in bilico tra le dimensioni atemporali." Le elucubrazioni gli fustigavano i pensieri, si traducevano in materialità nelle espressioni allucinate e perplesse del viso. E' che lui comunicava inquietudine, chi osservava il suo viso ne rimaneva rapito, aggrovigliato nella sua gronte corrugata, incespicava sui suoi sorrisi rassegnati, spesso si smarriva anche : un labirinto senz'uscita quel viso greve. Il flusso di pensieri, quelle riflessioni, erano trasfuse nel moto smanioso delle mani, tamburellava spesso su ogni superficie, scaricava così l'onirico mondo che gli domiciliava nel cuore. Chissà per quale strana combinazione interiore, rammentò degli anni precendeti, di quel cielo stellato che gli catturò tre anni prima lo sguardo, in quella notte. Ricordava di essersi fermato per ore, sullo strapiombo di quella scogliera. Uno scavezzacollo, ecco cos'era, rischiare le penne pur d'osservare la volta di stelle. Quelle stelle di cui tanto scrisse la sera dopo, su chilometri di fogli, poi accartocciati. Amava scrivere, ogni immagine doveva tradurla in espressione, altrimenti il senso d'irrisolto gli avrebbe escoriato le membra dall'interno, irrimediabilmente. I mozziconi della sigaretta, sì aveva scritto anche di loro, persino del fumo che s'attorciglia, del sole che si sveglia e filtra tra le fessure delle imposte, dei pulviscoli che danzano sotto i raggi obliqui i luna. I suoi pensieri non erano flussi, macché: ondate. Lui stesso era un'ondata impetuosa, impossibile non notare quell'aura indistinta quando passava accanto a qualcuno.. No, passava e gli sguardi sbalorditi l'accerchiavano, avvolgendolo di stupore. Scrivere non era una decisione, scrivere era un prolungamento delle mani, era parte fisica del suo corpo, gli picchiettava le tempie, quel turbinio esasperante: quel "nonsoché alfabetico". Non solo istinto, esigenza era, Scrivere era  la fotosintesi clorofiliana della sua anima, quella perennemente incastrata tra i rovi. Ipersensibile agli odori, tatto sopraffine, ricettività esasperante. Lui lavorava di sensi. Immancabile il libro dei sinonimi poi, la fissazione che le cose andavano chiamate non solo col nome comune, ma in ogni modo plausibile, "Perché l'ambiguità è percezione soggettiva"- asseriva sempre, "Perché anche le parole devono mutare indumento, come tutti gli altri microrganismi, come ogni essere, come tutto ciò che vive." -soggiungeva.-  E le parole per lui erano vive più delle persone, le parole erano immortali, e si propagavano anche nel tempo e negli intercapedini del suolo giundendo al suo timpano percettivo. Creatura d'oltremondo. Abitante di un altro pianeta, un extraterrestre: Era un poeta.