sbagliando

Post N° 44


Quando ero bambina adoravo il mare, la spiaggia, il sole che entrava dalle imposte nei pomeriggi. Sembrava tutto  un rituale antico, come il cicalio di voci in lontananza, dopo un pranzo consumato con i parenti. Ripensavo ai colori del vestito di mia madre, al suo viso, alla sua dolcezza come quella del pane appena cotto. I miei compagni d’ infanzia, le nostre corse sull’asfalto duro e nero, le cadute, le ferite, i ruzzoloni nella campagna verde e speranzosa. L’odore era incredibile, quella sensazione di libertà, di pienezza della vita, i sorrisi sul viso sporco di terra. Quella terra che non sporca le mani, ma che ti riempie il cuore di assoluta umiltà. Gli abbracci soffocati dopo una zuffa di pugni e calci alla cieca, mentre ci ricomponevamo dal nostro gioco degenerato. Le corse in soffitta a rubare, come delle gazze ladre, ciò che attirava la nostra fantasia e poi tutti  insieme in punizione davanti un muro grigio.  Tutto mi sembrava gigantesco, ma non avevo nessuna paura, perché eravamo inseparabili come i lacci di una corda. Il tempo ci ha concesso tanto, l’ansia del vivere, gli amori che ti regala la vita, amici di una stagione e poi di nuovo sconosciuti. Siamo cresciuti tutti, ma nel ricordo la nostra vecchia stagione dell’infanzia è rimasta intensa come l’odore dei melograni della mia isola.