La città uguale non è altro che la città, asettica e seriale, delle ex periferie ormai divenute centro. Un modo di essere dell’edilizia e dell’urbanistica del consumo che sta colonizzando a poco a poco tutte le altre zone urbane, tutte perfettamente funzionali alle logiche del pil e del grande capitale.
In questi giorni ci ho camminato dentro. Ho attraversato tangenziali e raccordi autostradali, ho superato sopraelevate e tunnel. Nel suo espandersi inarrestabile, la città uguale fa sì che gli spazi delle piazze e del verde siano costretti a soccombere per fare spazio alle grandi catene degli ipermercati, alle linee di spostamento veloce, ai grandi piazzali di accesso alle multisale agli immensi parcheggi.
Il paesaggio si fa uniforme e diventa comune a tutte le città, tanto da diventare la dimostrazione di come le scelte delle multinazionali abbia una ricaduta sulle nostre vite e possieda la capacità di creare ambienti in continua trasformazione.
Uno scenario così abilmente artefatto da riuscire a poco a poco a colonizzare per ricaduta anche le vie dei centri storici, fino a impedirvi la sopravvivenza di qualsiasi piccolo e onesto esercizio commerciale. Ponti e raccordi, tapis roulant e scale mobili, è il solito reticolo di inviti all’acquisto senza preclusione.
Non a caso qui, nella città uguale, il sentimento di cittadinanza viene a scomparire, perde gli indizi riconoscibili di una qualche storia, e diventa il luogo eletto per la spersonalizzazione.
Succede così che quando mi trovo in questo tipo di scenario non avverto alcun legame di appartenenza territoriale e ogni tanto provo persino a domandarmelo: Ma dove sono?
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