noeasywayout
Quelli che sognano di giorno sono consapevoli di tante cose che sfuggono a quelli che sognano solo di notte. (Edgar A. Poe)
Post n°706 pubblicato il 19 Gennaio 2015 da sciffo
Disteso alla mia sinistra nel letto matrimoniale, come una sposa da incubo, il Castro spegne finalmente la luce su questa lunga giornata. Siamo partiti stamattina presto, l’aria ancora fresca dopo la notte settembrina in pianura. C’è stato un tempo in cui il ritrovo era fissato appena dopo l’alba, incuranti delle condizioni meteorologiche e meteoropatiche, con i serbatoi delle moto obbligatoriamente riempiti fin dalla sera prima. I riti vitali della colazione e della cacca già espletati a casa, o peggio pericolosamente saltati, per rispettare appuntamenti da tregenda. Il tempo di fare la conta dei presenti e si partiva a tutto gas, urlando “DAIII!!!!!”. Espletate le formalità di rito, il primo violento rutto postcolazione a far come sempre da segnale di partenza, siamo finalmente saliti in sella di fronte ad una folla di adoranti fanciulle - alcune incallite donne delle pulizie in pausa intente a fumare toscanelli - ed al grido di “Gentlemen, start your engines!” siamo partiti sgasando verso la solita, lunga cavalcata autostradale verso le Alpi. La giornata svolta quando finalmente raggiungiamo nel Cadore, diretti verso Cortina. A dir la verità, i paesi che si attraversano in questo tratto sono orrendi, un’accozzaglia d’architettura da Transilvania, per di più annerita dai gas di scarico, e altrettanto la statale dissestata che li attraversa. Ma al di sopra di queste umane miserie si stagliano le prime vette dolomitiche, risplendenti di sole. Come sempre mi capita, dopo mesi passati nella desolante piattezza del paesaggio padano, la vista delle montagne mi pompa nel cuore un’inspiegabile gioia primordiale, ravvivando le braci mai spente dei ricordi e facendomi dimenticare la nebbia, e le paure. Il pranzo arriva a tempo ormai scaduto, sono quasi le due quando fermiamo le moto sul Pordoi, e sento lo stomaco brontolare dopo averlo illuso con la birra. Ricordo decine di soste in questo rifugio, e in particolare una foto di gruppo di almeno vent’anni fa, sulla terrazza naturale che guarda verso Arabba, con la neve ancora alta e un cielo di piombo, prossimo al tramonto, che incombeva su di noi. Eravamo in tanti e senza rughe sul viso, mal equipaggiati e con moto inadatte, ma anche con grandi sorrisi senza filtro e l’entusiasmo di chi vede e vive per la prima volta. Ce ne fottevamoalla grande del freddo, delle nostre ridicole scarpe da tennis, del buio ormai imminente nessuno aveva mai pensato di prenotare un albergo per la notte. Credevamo che tutto sarebbe andato sempre bene, che nulla avrebbe potuto fermarci. Un’ora e mezza più tardi, la distesa dei tavoli ormai da tempo deserta, le pance pericolosamente riempite di carne arrosto, patate, alcool e purtroppo anche da un agghiacciante Kaiserschmarren di almeno dieci uova, siamo finalmente pronti a risalire in sella. E’ un momento cruciale delle nostre gite in moto, forse quello in cui sarebbe più indicato recitare un rosario di gruppo, o almeno un paternoster. Il Gattopardo non proferisce parola da almeno mezz’ora, limitandosi a risate sguaiate e spesso fuori tempo. Ted, più professionale, continua a discettare di tutto e niente, ma ha gli occhi lucidissimi e ridotti a due fessure. Il Raudo ha un sorrisetto stampato, come quello del teschio su un cartello di pericolo dimorte e, nello scendere dal gradino della veranda, lo vedo perdere l’equilibrio; si volta per vedere se ce ne siamo accorti, ma gli voglio bene e faccio finta di niente. La giusta chiosa la mette il Castro, parecchio annebbiato, che credendo di avermi alle spalle, fa partire una scorreggia rimbombante lunghissima, poi si volta gongolante, solo per accorgersi che l’ha sganciata praticamente in faccia alla cameriera. La poveretta continua a porgergli il resto, ridotta a una statua di cera. Anch’io del resto non sono certo fresco come un fiore, anzi mentre scaldo il motore mi scappa un rutto fungoso dentro il casco che rischia di farmi perdere conoscenza, appannando la visiera con una patina unta e orripilante. La sbornia di alcool e cacciagione plastificata viene in ogni caso smaltita nel transitare sul falsopiano che conduce al Gardena, uno dei tratti stradali più spettacolari di tutto l’arco alpino, forse di tutto il mondo. Il mix visivo tra le vette nude di roccia dolomitica a sinistra e i prati di perfetti come velluto sulla destra, è un balsamo per l’anima, e le nebbie digestive svaniscono di colpo, come se avessimo pranzato con acqua di fonte e mele cotte. |
Post n°705 pubblicato il 21 Novembre 2014 da sciffo
Outside in the cold distance
Fatta eccezione per una piccola parentesi di qualche mese, a Parma dove mi trovavo per lavoro, e un collega mi aveva affittato la dependance della sua casa alle pendici delle colline. Passò qualche tempo finchè, nel 2001, la mia vita prese una di quelle tipiche direzioni impreviste. E così mi sono ritrovato a vivere in campagna, in una frazioncina con un centinaio di abitanti circondata dai campi. All'inizio, ricordo, era una sensazione strana, per certi versi inquietante. Amo il vento che annuncia primavera, sedermi sotto i tre pioppi giganteschi vicino alla casa abbandonata, la musica di un milione di foglie appena nate che vibrano di vita. E le nuvole d'ovatta che passano correndo, dirette chissà dove. Amo le sere d'estate, nell'ora della luce d'oro, sull'orlo del tramonto, che accende il verde del grano ancora acerbo. Porto Wally a passeggio, e me ne sto lì a guardare i campi, compatti e regolari come il tappeto di un titano, nel silenzio che addolcisce il calore della terra secca. Amo l'arrivo dell'autunno, quando il sole del mattino scaccia via la nebbia, e ogni zolla fuma come lava di vulcano, ogni filo d'erba risplende di un suo privato arcobaleno. Senti l'aria che pian piano si riscalda, con un ultimo brivido, e il bofonchio di un trattore che lavora senza fretta. Amo l'inverno quando i campi sono una distesa di bianco intatto, solo le tracce di Wally che corre ubriaco di gioia e si tuffa nei fossi pieni di neve come fossero cuscini. Se c'è il sole, gli occhi spaziano dal profilo dell'Abetone a quello delle Prealpi. In mezzo mille campanili, il fumo dei camini e l'odore della legna umida. E poi capitano cose strane. So che non mi crederete, anche moglie e figli mi han guardato con sorrisi di compatimento, enunciando vaghe teorie socio-scientifiche. Mezzogiorno di maggio, porto il cane a fare una corsa nella tenuta del conte. E' un posto meraviglioso, campi verdi senza fine con un castagno alto venti metri, che si erge nelle pianura come un vecchio guardiano. Entriamo per la stradina che porta al grande fienile abbandonato, a fianco c'è una casa da mezzadro, diroccata e seminascosta da una jungla di alberi di fichi cresciuti senza controllo. Giro l'angolo e, nello spiazzo tra la casa ed il fienile, c'è una vecchia vestita di nero e con il fazzolettone in testa, che parte in bicicletta senza voltarsi a guardarmi, diretta verso il nulla dei campi. Io a certe cose non ho mai creduto.
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Post n°704 pubblicato il 10 Ottobre 2014 da sciffo
Have you ever seen a one trick pony in the field so happy and free? Grosseto, giugno, la finale del campionato italiano di flag football under 13 sta per cominciare. Non so dire, onestamente, neppure alla soglia dei cinquant’anni, quanto un padre possa influenzare un figlio. Al netto delle influenze di senso opposto, intendo, perché è noto che molti ragazzini tendono a rovesciare del tutto il loro retaggio. Inizia la partita, i primi drive non sono facili, qualche passaggio o ricezione sbagliati, un po’ di disattenzione in difesa. La tensione di una finale è fisicamente avvertibile quando i ragazzi tornano in panchina, sudati e un po’ nervosi per il risultato che non si sblocca così facilmente. Hanno lavorato duro per essere qui, hanno abbattuto di forza ogni piccolo grande ostacolo trovato sulla loro strada, sarebbe davvero una beffa non segnare quella sporca, ultima meta. Li guardo giocare, lottare e aiutarsi a vicenda in quel momento di stallo. Mi sento come un naturalista che osserva da lontano un branco di cuccioli che crescono nella savana. Quanto sono diversi l’uno dall’altro… così giovani, eppure è semplice capire che tipo di giocatori diventeranno. C’è quello un po’ Rodomonte, dentro cui si agita già un futuro uomo di linea, che discute con un giovane levriero dalle lunghe e veloci gambe, sicuro ricevitore. Il coach della difesa impartisce istruzioni ad un tipetto forte e silenzioso, embrione di coscenzioso linebacker, mentre un biondo longilineo coinvolge i compagni, lui è, e sarà, quarterback.
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Post n°703 pubblicato il 30 Settembre 2014 da sciffo
Ho corso tanto. A questo pensavo qualche giorno fa, mentre salutavo le vacanze siciliane correndo la prima ora del mattino, accompagnato dai profumi di mare e di pineta, poco prima di prendere l'aereo. Ho corso quando mio padre mi fece la prima pera di endorfine, sulla Mura com'è giusto, avevo dodici anni e il fiato corto, e mi dissi mai più. |
Post n°702 pubblicato il 05 Agosto 2014 da sciffo
A Balboa, perchè tra poco sarà il tuo turno. Non sprecarlo. I only wanted 2 be some kind of friend Arrivi a mezzo secolo, e tutto quel che vorresti è divenire un soffio d’anima, fonderti col vento tiepido, tra nuvole di spessore dolomitico. Starsene lassù, invisibile e dimenticato, in un azzurro esotico, da latitudini africane. Poi salire ancor di più, veloce come un ricordo, fin dove diventa blu e appaiono le prime stelle.
Eppure, sono stato fortunato. Era la mia Età dell’Oro, un flusso continuo di meravigliose giornate, una dopo l’altra, tutte straripanti di energie vitali, perfettamente allineate all’umore benevolo del Cielo. Ti sembrerà che esageri, lo so, ma questo è ciò che fu. Fu mentre tutto questo turbinava, che lei arrivò. E quelle mattine senza fine, lei nel banco davanti, con quella sua tuta di felpa gialla senza fronzoli. Scherzavo con tutto e tutti, e intanto, una frazione della mente passava ore a cercar di indovinare il colore delle sue gambe così lunghe, o il suono di una sua più intima risata. E quell’ansa perfetta sopra la sua anca, che avevo sbirciato, invidiosissimo, in una foto di vacanze al mare senza di me. Non era puro desiderio, no. Ero troppo giovane, inesperto quanto un giovane scoiattolo. Era piuttosto un embrione di ciò che quei poeti d’oltremanica, i cui versi sentivo declamare nelle lezioni di letteratura inglese dal professor Dall’Olio, chiamavano semplicemente amore. Ottenuta la patente, si fece avanti la paura di non averla più solo per me. E invece, per qualche mese e sua richiesta, venne a frequentare la palestra dove mi allenavo di solito. Furono nuovi pomeriggi di gioia soffusa, mentre l’inverno lasciava spazio alla primavera, ciascuno strano e dorato come una favola di Grimm. Non ebbi mai il coraggio di tentare la sorte. Certo, esisteva anche l’altra possibilità, che lei mi dicesse si. Ma non conoscevo ancora molto del segreto codice della femmina, non ero in grado di captare i suoi segnali cifrati, se mai ce ne sono mai stati. Ora, probabilmente, potrei valutare meglio. Saprei che un’iniziativa decisa, a volte, può scardinare l’esitazione. Ma so anche di aver fatto bene a non forzare perché, comunque fosse andata, le cose tra noi non sarebbero state più le stesse, e trent’anni dopo i ricordi forse avrebbero potuto essere più reali, ma anche meno intensi e piacevoli. E venne maggio, dunque, un suo mattino ambrato e tiepido come profumo di camomilla. Mia madre venne a svegliarmi poco dopo l’alba, ma ero già desto, come sempre quasi nudo sotto il lenzuolo leggero, percorso da correnti calde di energia animale. Quel giorno si partiva per la gita scolastica di quinta, l’ultima del liceo, la più lunga ed importante della vita. L’assoluta certezza che sarebbe stato tutto perfetto, nemmeno a pensarci, nessun dubbio né ombra potevano toccarmi. Nota Andò a finire così. Poi, dopo poche settimane, la scuola finì, e lei rientrò a casa dei genitori, fuori città. Finirono così anche i pomeriggi in palestra, e le occasioni di vederla.
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il 10/08/2018 alle 11:01
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