Da bambina sognavo di diventare un medico, anche se allora le dottoresse erano poche. Mi scontrai per la prima volta con papà che non ne volle nemmeno sentir parlare ed aveva ipotizzato per me un avvenire di brava signora che sapesse gestire una casa, accudire i figli e il marito, sapesse cucinare, riordinare, cucire e fare la calza. Alla mia istruzione pensava lui che era già in pensione e ci pensò veramente, ma in maniera anomala. Sostenevo conversazioni con adulti, ma coi miei coetanei ero un pesce fuor d’ acqua, non ne conoscevo il gergo e capivo di non poter parlare loro di Confucio. La tata provvedeva a farmi diventare una colf perfetta e la mamma mi istruiva in cucina anche se avevamo interminabili discussioni sulle migliorie che volevo apportare e che lei non condivideva. Ebbi due anni di vere sofferenze anche se cercavo di non farlo capire a papà per non addolorarlo. Ero sola perché le mie amiche, figlie di contadini, non potevano farmi compagnia in quanto già lavoravano, le benestanti prendevano tutte le mattine il pullman e andavano a scuola in città, le cosiddette ricche le avevo quando venivano in campagna. Mi è rimasto così impresso il dolore di quando vedevo chiudere le ville e salutavo le mie amiche, che persino ora, passo l’ estate in campagna, ma quando cominciano le brume autunnali e si accorciano le giornate fuggo in città con gioia. A un certo punto mia madre aveva tentato di insegnarmi i segreti dell’uncinetto e dei ferri da calza. Li odiavo lasciavo cadere i punti e facevo tutto a rovescio. Pensarono di mandarmi da una sarta vicina perché imparassi a cucire, ma anche li fu un fiasco non ne volevo sapere di fare i punti piccoli e tutti uguali, mi divertivo a tirare talmente il filo che l’indumento si arricciava. Puàh!
Per fortuna la mamma conobbe la sig. Giulia Maramotti e le parlò di questa figlia degenere e le chiese di prendermi alla sua scuola di Taglio e Cucito. Da quel momento la sig. Giulia divenne la mia seconda mamma. Era una donna molto intelligente e quando vide che non facevo progressi capì che non era perché ero scema, ma che non mi piaceva. Io mi confidai a lei e le dissi che volevo fare il medico, ma se questo non era possibile almeno andare a scuola coi ragazzi della mia età. Mandò a chiamare la mamma che mi sapeva infelice ed insieme tramarono contro papà. La sig. Giulia gli disse che io avevo bisogno per imparare a fare bene i modelli di andare all’Istituto d’Arte. D’accordo non era medicina, però mi accontentavo; volevo diventare una ragazzina normale. Grazie sig. Giulia mia grande benefattrice. Fu l’estate più lunga della mia vita, non vedevo l’ ora di andare a scuola e finalmente venne ottobre. Quanto mi divertii in quei quattro anni di Istituto d’Arte!Siccome andavo a scuola solo il mattino, il pomeriggio andavo a fare taglio e cucito e per riconoscenza verso la sig. Giulia imparavo ed ero felice. Avevo poi incominciato a fare i disegni per i libri di taglio e a guadagnare qualcosa per i miei piccoli bisogni.Ero molto esuberante e a volte ne combinavo qualcuna, però quando lavoravo diventavo seria e precisa e la sig. Giulia non ha mai avuto bisogno di rettificare i miei disegni.Andavo anche in tipografia a correggere le bozze e non sono mai stata sgridata per il mio lavoro, ma solo per le mie birichinate. La più grossa che feci fu questa: la sig.Giulia voleva nutrire anche il nostro spirito e un anno prima di Pasqua fece venire tutti i giorni per mezz’ora un prete a farci la predica. Non fu felice la scelta del reverendo, che era noioso con una voce monotona, e si faceva una gran fatica a reprimere gli sbadigli. In un angolo del salone, c’era una sedia che aveva un piede pericolante ed era stata messa da parte in attesa del falegname. Io la presi sistemai bene la gamba e andai a sedermi proprio davanti e nel bel mezzo dell’omelia, spostai il piede e caddi a gambe all’aria fra le risate generali. Il prete perse il filo, se ne andò e non si vide più. Quella volta la sig. Giulia mi sgridò; io mi difendevo dicendo che non sapevo che la sedia fosse difettosa. Naturalmente non la bevve e scosse la testa, perché malgrado le malefatte, le ero simpatica.Finito l’istituto d’arte irretii i professori perché inducessero mio padre a farmi continuare a Bologna e lui a malincuore acconsentì, solo che per iscrivermi avevo bisogno anche di un diploma di magistrali inferiori in quanto avevo studiato solo materie artistiche. C’era il programma di quattro anni e lo dovevo svolgere in un anno. Per l’italiano me la cavavo, ma restavano latino, francese, matematica, storia e geografia, musica e puericoltura. Fu un anno molto intenso, ma le sfide mi piacciono. Ce la feci; purtroppo per niente in quanto la guerra era diventata molto cruenta e non mi permetteva più di prendere treni che venivano sempre mitragliati. La gente fuggiva dalle città bombardate.In attesa di tempi migliori, mi impiegai in un mulino. Finì la guerra, il mio fidanzato tornò a casa e cominciò a parlare di sposarmi. Abbandonai il mio sogno e siccome al mulino andavo solo mezza giornata, nell’altra mezza giornata tornai alla scuola Maramotti a fare disegni. La sig. Giulia apprezzava il mio lavoro e chiudeva un occhio sulle mie intemperanze; sapeva che ero così vivace per carattere, ma che le volevo bene e non ero certo cattiva. Poi mi sposai, lei voleva che continuassi a lavorare, ma mia suocera, soprannominata da me e mio cognato IL DUCE , non voleva; dovevo stare a casa. Quando andavo a trovarla, mi chiedeva: “Si può sapere cosa fai tutto il giorno ? “ ed io le rispondevo che facevo l’orlo a giorno nelle lenzuola, peraltro senza mai contare i fili, perché lo ritenevo inutile. Lei sbuffava, non voleva come suol dirsi mettermi su, però non approvava. Passarono così quattro anni infernali per me; ma appena la bambina ebbe tre anni la iscrissi all’asilo e una sera (non chiesi il permesso) semplicemente annunciai che il lunedì sarei andata a lavorare dalla sig. Maramotti mezza giornata perché l’altra metà l’avrei dedicata ai lavori di casa. Ci fu un silenzio di tomba che io interpretai come consenso. Da quel momento lavorai molto ma mi divertii anche molto. Avevo ritrovato le mie amiche, ero in mezzo a gente giovane e mi piaceva anche l’indipendenza economica. La sig. Giulia era buonissima con me, quando sapeva che la mia bambina era malata mi dava il permesso di portare a casa i miei disegni da finire. Quanto bene mi ha fatto questa donna meravigliosa, ho imparato molto da lei e non mi riferisco solo alle nozioni di taglio, ma soprattutto mi ha insegnato ad essere forte, a come prendere ed affrontare la vita. Mi disse: “ La strada più dura per una donna è accompagnare al cimitero un figlio, io ho fatto tre volte quella strada e ho combattuto lavorando anche 20 ore al giorno in modo da cadere sfinita e dormire un po’.” Nei miei grandi dolori per combattere ho usato questo metodo. Grazie sig, Giulia.Restai a lavorare per lei dodici anni poi mio marito ebbe la fortuna di ottenere da suo zio un negozio in via Emilia e aveva bisogno di me. La sig. Giulia capì e mi lasciò andare, ma le dispiaceva tanto che l’ultimo giorno che lavorai per lei mi espose tutto un programma come se non fosse vero che me ne andavo. Se ci penso mi viene ancora il magone. Dovevo per forza voltare la pagina e andai in negozio dove mi diedi da fare e poiché venivo dal mondo della moda, mi buttai su tutto ciò che vi era di nuovo e che piaceva molto ai giovani. Passai così ventidue anni in negozio, con mia cognata, senza mai litigare, perché ci eravamo divisi le mansioni, io pensavo alla vetrina e lei alla contabilità e insieme ci dedicavamo alla vendita. Lavoravo molto, mi stancavo molto, ma mi piaceva. Ringrazio di nuovo la sig. Giulia, perché ho capito che il bagaglio di cognizioni che mi ha elargito, ho potuto applicarlo anche in altro campo.Nonna Rachele